Il viaggio che abbiamo seguito ci porta da un’aula elementare di Dovia fino alla tribuna della Camera dei deputati, dal banco di scuola fino al banco del governo. È la parabola di un uomo che comincia come ribelle e finisce come capo.
Quando Benito Mussolini, bambino, disse al maestro: “Non sono venuto qui per obbedire. Sono venuto per capire”, quella frase sembrava un lampo passeggero. In realtà, fu il seme di un destino. La sua vita giovanile non fu altro che un lungo conflitto tra obbedienza e ribellione, tra disciplina e rifiuto, tra fede e politica.

Le radici
Dovia e Predappio furono i suoi primi orizzonti.
Un padre fabbro, anarchico e socialista, che gli insegnava il valore della rivolta; una madre maestra, cattolica e devota, che lo spingeva verso lo studio e la disciplina.
Tra martello e rosario, Benito imparò che la vita è un campo di forze contrastanti.
Non scelse mai un solo sentiero: portò con sé entrambi, trasformandoli in tensione continua.
Il ragazzo inquieto
A Faenza e a Forlimpopoli, Mussolini si mostrò subito diverso dagli altri.
Intelligente, rapido nell’apprendere, ma insofferente alle regole.
Sapeva discutere con i professori, affascinare i compagni, imporsi con la voce.
E sapeva anche cedere all’impulso della violenza, come quando colpì con un coltello un coetaneo.
Era già il segno di un carattere che non ammetteva mediazioni: voleva vincere, sempre.
L’esilio e la fame
La Svizzera fu la sua prima grande prova.
Emigrato a diciannove anni, conobbe la fame, la solitudine e le notti per strada.
Ma fu lì che incontrò le idee che avrebbero segnato la sua vita: il socialismo internazionale, le biblioteche, le discussioni infinite con rivoluzionari di ogni paese.
Il carcere di Berna nel 1903 lo temprò.
Cinque mesi dietro le sbarre gli insegnarono che la libertà è un bene fragile, ma anche che la prigione non può spegnere la voce di chi vuole farsi sentire.
Maestro e agitatore
Tornato in Italia, Mussolini provò a fare il maestro elementare.
Insegnava con passione, ma sempre inquieto.
Ogni incarico durava poco: il suo vero pulpito erano le piazze, le osterie, i circoli socialisti.
Nel 1909 il carcere di Forlì lo riportò dietro le sbarre.
Ma anche lì, invece di piegarsi, scrisse La mia vita.
In quelle pagine, a ventinove anni, si descriveva come «irrequieto, selvaggio, schivo di popolarità».
Non era un bilancio, era una proclamazione: il giovane Mussolini stava forgiando la propria leggenda.
Il fuoco della guerra
La Grande Guerra fu il crocevia.
Da socialista internazionalista, Mussolini si trasformò in interventista.
Fondò Il Popolo d’Italia, gridò che la neutralità era vigliaccheria, che l’Italia doveva combattere.
Sul fronte conobbe il sangue e le schegge: oltre quaranta frammenti nel corpo, una ferita che lo segnò per sempre.
Uscì dall’ospedale più deciso che mai.
Non era più solo un agitatore: era un reduce, un uomo che poteva parlare con l’autorità di chi aveva sofferto.
Il capo delle camicie nere
Dal 1919 in poi, Mussolini trasformò il suo giornale in una macchina di propaganda.
I Fasci di combattimento nacquero tra incertezze e fallimenti, ma si rafforzarono con la violenza del biennio rosso.
Le squadre nere divennero la sua arma politica.
La sconfitta elettorale del 1919 sembrò la fine, ma in realtà fu l’inizio.
Due anni dopo, nel 1921, fondò il Partito Nazionale Fascista.
Nello stesso anno entrò in Parlamento: da tribuno della piazza a deputato, da sovversivo a uomo delle istituzioni.
La marcia e il potere
Ottobre 1922: la Marcia su Roma.
Non fu una conquista militare, ma un colpo di scena politico.
Le camicie nere marciavano, ma fu il re a consegnargli il potere.
Mussolini arrivò a Roma in treno, in giacca elegante, non come un ribelle, ma come un capo di governo.
Era la vittoria di chi sa trasformare la minaccia in opportunità.
Dal compromesso al dominio
Il primo governo (1922-1923) fu un compromesso: pochi fascisti, molti liberali e tecnici.
Ma con la legge Acerbo Mussolini si preparò la strada.
Le elezioni del 1924, vinte dal “Listone Nazionale”, gli consegnarono la maggioranza assoluta.
Non più solo capo del governo: ora era l’uomo forte dello Stato.
Matteotti e la svolta
Il delitto Matteotti nel 1924 fu il punto di non ritorno.
Sembrò la fine: l’opposizione si ritirò sull’Aventino, il governo vacillava, l’Italia gridava vendetta.
Ma il 3 gennaio 1925 Mussolini ribaltò la situazione.
Davanti alla Camera disse:
«Io solo assumo ogni responsabilità politica, morale, storica di quanto è avvenuto.»
Non era una resa, era una sfida.
E da quel giorno l’Italia entrò nella dittatura.
Il giovane che non c’era più
La parabola si era compiuta.
Il bambino curioso, l’adolescente ribelle, l’esule affamato, il maestro inquieto, il prigioniero di Forlì, il soldato ferito, l’agitatore di piazza: tutto questo era ormai alle spalle.
Nel gennaio 1925 Mussolini non era più “il giovane”. Era il capo di un regime.
La frase dell’infanzia, «Non sono venuto per obbedire, sono venuto per capire», sembrava ormai lontanissima.
Ora, a lui, milioni di italiani avrebbero dovuto obbedire.
Conclusione
Raccontare il giovane Mussolini significa osservare non solo la nascita di un dittatore, ma la trasformazione di un uomo che visse ogni fase della giovinezza come un combattimento: contro i maestri, contro la fame, contro lo Stato, contro i nemici politici.
Il suo cammino dimostra che il potere non nasce mai all’improvviso.
È una costruzione lenta, fatta di passioni, cadute, ambizioni, violenze e scelte radicali.
Il giovane Mussolini si era proposto di “capire”.
Ma ciò che comprese, alla fine, fu che per lui la conoscenza non era mai abbastanza: voleva il dominio.
E quando arrivò il momento, prese il potere con la stessa forza con cui, da ragazzo, aveva afferrato un coltello in una lite: senza esitazione, senza compromessi, con la convinzione di essere nato per comandare.
Vai capitolo 21 – Fine