
Serve un sistema che valorizzi chi insegna davvero, non chi si accontenta di “fare l’insegnante”
C’è una frase che negli ultimi giorni ha riacceso un dibattito importante:
“La scuola è fatta per la maggior parte da bravi insegnanti, che solo un sistema di valutazione può far emergere. La scuola non può essere il ripiego per chi non è riuscito a fare altre professioni.”
Parole di Elena Donazzan, assessore all’Istruzione della Regione Veneto, che hanno diviso l’opinione pubblica ma che meritano di essere lette con attenzione.
Perché, al di là delle appartenenze politiche, racchiudono una verità scomoda: in Italia, troppo spesso, l’insegnamento viene percepito come un rifugio professionale, non come una scelta di valore.
Una professione che chiede vocazione
Fare l’insegnante non è un mestiere, ma una responsabilità civile.
Richiede passione, preparazione, empatia, e la capacità di parlare a generazioni che cambiano ogni cinque anni.
Eppure, in molti casi, il sistema formativo italiano sembra dimenticare proprio questo: la scuola è il luogo dove nasce la coscienza di un Paese.
Ci sono maestri e professori che ogni giorno entrano in classe con lo stesso spirito dei missionari: ascoltano, motivano, cercano la scintilla giusta per accendere la curiosità di un ragazzo.
Ma c’è anche chi, prigioniero della routine, insegna senza più crederci, schiacciato da burocrazia, stipendi bassi e assenza di riconoscimento.
È qui che il pensiero di Donazzan colpisce nel segno: la scuola non può diventare una zona grigia dove tutto si equivalga, dove l’impegno e la mediocrità finiscano sullo stesso piano.
Il nodo del merito
In un Paese che parla continuamente di meritocrazia ma la pratica di rado, anche la scuola vive lo stesso paradosso.
Un sistema che non valuta davvero la qualità dell’insegnamento finisce per penalizzare proprio chi si spende di più.
Chi aggiorna i metodi, chi dedica tempo extra agli studenti, chi si forma fuori orario, spesso non riceve alcun riconoscimento concreto.
E così la scuola italiana si regge, ancora oggi, sul volontariato emotivo di migliaia di docenti che non insegnano solo per contratto, ma per vocazione.
Sono loro che trasformano le ore in esperienze, le materie in storie, i programmi in percorsi di crescita.
Ma non può essere sempre e solo una questione di buona volontà.
Un Paese serio deve saper distinguere, premiare, e sostenere chi fa la differenza.
Valutare non significa punire
Il tema della valutazione, tuttavia, resta spinoso.
In Italia ogni tentativo di introdurre sistemi meritocratici nella scuola viene visto come un rischio o una minaccia.
Eppure, se pensiamo al modello finlandese o canadese, scopriamo che la valutazione degli insegnanti non serve a “classificare”, ma a far crescere.
Non si tratta di punire, ma di costruire un percorso continuo di miglioramento.
Di affiancare al docente un sistema di osservazione e feedback, che misuri non solo la preparazione teorica, ma la capacità di comunicare, di motivare, di creare un ambiente educativo sano.
Un bravo insegnante non è quello che fa imparare le nozioni, ma quello che fa venire voglia di imparare.
E questa qualità, invisibile nei registri elettronici, è quella che può cambiare un destino.
La scuola come luogo di identità
Chi sceglie la scuola dovrebbe farlo per convinzione, non per mancanza di alternative.
L’insegnamento, se vissuto come mestiere “di ripiego”, finisce per impoverire non solo chi lo esercita, ma anche chi lo riceve.
Un ragazzo percepisce subito se chi ha davanti crede in ciò che dice.
Per questo la scuola andrebbe considerata una scelta d’élite morale, non economica.
Una scelta di responsabilità verso la comunità, verso il futuro.
Ogni docente, nel suo piccolo, plasma la società che verrà.
Ogni ora di lezione può essere un atto di fiducia o un’occasione sprecata.
E se oggi tanti ragazzi perdono motivazione, forse è anche perché non vedono più nell’insegnante un modello di ispirazione, ma un impiegato stanco.
Dare valore a chi educa
Non possiamo chiedere qualità senza offrire dignità.
Gli insegnanti italiani guadagnano meno della media europea, spesso con carichi di lavoro immensi e contratti precari.
Eppure, nonostante tutto, continuano a fare da guida, da psicologi, da mediatori.
È un miracolo quotidiano che meriterebbe rispetto e riconoscimento.
Perché non c’è impresa, azienda o innovazione che nasca senza un buon insegnante alle spalle.
La scuola è l’industria più preziosa che abbiamo: quella del futuro.
Conclusione – Tornare a credere nella scuola
La frase di Donazzan, al netto delle polemiche, ci costringe a guardare in faccia la realtà.
La scuola non è un luogo dove “tutti possono insegnare”.
È un ambiente che deve essere affidato a chi ha talento, preparazione e cuore.
Non basta una laurea, serve una vocazione educativa.
E allora sì, serve un sistema che sappia riconoscere e valorizzare i migliori, senza paura di dirlo.
Perché il futuro di un Paese non si costruisce solo con le leggi o le riforme, ma con la qualità di chi forma le menti che le scriveranno.