La pace armata di Berlino

La pace armata: quando il cannone annaffia un fiore, ma resta pur sempre un cannone. 🌿💣
✍️ Il Sognatore Lento

Domande che l’Europa non osa fare


C’è un’espressione che fa rumore anche senza spari: riarmo tedesco.
Due parole che in Europa evocano ricordi, fantasmi, e interrogativi che molti preferiscono non pronunciare ad alta voce.

Dopo decenni di moderazione, la Germania ha deciso di rialzare la testa anche sul piano militare. Non solo parole: fondi concreti, contratti miliardari, una lista di spese che fa impallidire molti partner europei. Eppure, il modo in cui Berlino sta agendo lascia dietro di sé una lunga scia di perplessità.


Un ritorno annunciato

La guerra in Ucraina ha solo accelerato un processo già in corso.
Il cancelliere Olaf Scholz ha parlato di Zeitenwende — “svolta epocale” — per giustificare il fondo speciale da 100 miliardi di euro destinato alla difesa.
Obiettivo: modernizzare la Bundeswehr, rendere la Germania un pilastro della sicurezza europea.

Fin qui, nulla di scandaloso: ogni Stato ha diritto (e dovere) di difendersi. Ma la scala dell’investimento e la discrezione con cui è stato impostato sollevano interrogativi legittimi.


Il nodo industriale: un’Europa divisa

L’aspetto più spinoso non è la quantità di armi, ma a chi vengono affidati i contratti.
Le grandi aziende tedesche — Rheinmetall, ThyssenKrupp Marine Systems, Diehl Defence — sono al centro del piano.
Francia e Italia, invece, osservano da bordo campo.

Molte gare includono clausole che privilegiano la produzione interna, tagliando fuori le industrie europee non tedesche.
Un autarchismo di ritorno che stride con la retorica della difesa comune europea.
Si parla di alleanza, ma si pratica la competizione.

Il rischio? Che il riarmo tedesco diventi non un progetto europeo, ma un progetto tedesco in Europa.


La paura no, ma le domande sì

Non si tratta di evocare vecchi incubi storici.
La Germania di oggi non è quella del secolo scorso, e nessuno immagina divisioni di carri armati verso Est o Sud.
Eppure, la velocità e la solitudine con cui si muove meritano di essere osservate con attenzione.

C’è da avere paura? No.
C’è da preoccuparsi? Forse un po’.
C’è da domandarsi, questo sì.

Domandarsi perché l’Europa continua a farsi sorprendere dagli eventi invece di anticiparli.
Domandarsi come sia possibile parlare di “unità strategica” quando ognuno corre per conto proprio.
Domandarsi se il potere economico e quello militare, nelle stesse mani, non rischino di cambiare gli equilibri silenziosamente, senza clamori ma con conseguenze profonde.


Ma allora, chi ha ragione?

È qui che nasce la domanda più semplice e più scomoda:
ma allora, chi ha ragione?

Perché mentre la Germania si arma “per difendere la pace”, in Italia qualcuno ripete che le armi non servono, che bisogna investire solo in diplomazia e cultura.
Due visioni opposte della stessa paura: quella di un’Europa che non sa più da dove viene, né dove vuole andare.

Forse hanno ragione entrambi — o forse nessuno.
Perché la verità, come spesso accade, non sta né nei cannoni né nei manifesti, ma nel modo in cui si usano le parole “difesa” e “pace”.
E quando la pace diventa un affare d’industria, è giusto continuare a domandarsi da che parte stia davvero la ragione.


Conclusione

Non servono allarmi, ma serve memoria.
Serve una voce europea che torni a chiedere non “chi comanda”, ma “perché stiamo facendo tutto questo”.
Perché l’Europa non ha bisogno di nuove guerre, ma di nuove domande.

E se il mare della storia oggi canta “Subito”, forse la risposta, ancora una volta, dovrebbe essere “Insieme”.


✍️ Pensieri Scomposti – Il Sognatore Lento