
📍 Montenerodomo, 1975
C’erano giorni in cui bastava una foto per tenere insieme una famiglia intera.
I volti, le mani, gli sguardi raccontavano la semplicità di una vita fatta di lavoro, affetto e silenzi condivisi.
Montenerodomo osservava dall’alto, con le sue case di pietra e il vento buono delle montagne.
E quella luce – che ancora oggi sembra accarezzare i ricordi – custodisce il senso profondo delle radici.
E quelle radici arrivano lontano.
Hanno attraversato oceani e confini, portate da chi è partito in cerca di lavoro e di futuro, ma non ha mai dimenticato il profumo della propria terra.
Ogni foto come questa è un abbraccio tra chi è rimasto e chi è andato via: un modo per dire che Montenerodomo vive ancora, in ogni memoria, in ogni voce che la racconta da lontano.
Osservando questa immagine, mi accorgo che il tempo non cancella, ma cambia lo sguardo.
Ciò che per noi è memoria viva, per chi nasce oggi appare già storia.
Un ragazzo di dieci anni direbbe così
Quando il presente non riconosce più il passato
«Mamma, ma di che epoca storica parliamo?»
Perché il mondo che vede in quella foto gli appare lontanissimo, quasi preistorico — anche se non lo è.
Per lui tutto ciò che manca in quell’immagine — le macchine moderne, i telefoni, i vestiti colorati, le case rifinite — diventa automaticamente “antico”.
Non riesce a immaginare che quel bianco e nero non è il Medioevo, ma l’Italia dei suoi nonni: un Paese che camminava ancora a piedi, che viveva in comunità, che si accontentava di poco ma aveva tanto dentro.
Ecco il punto vero:
in mezzo secolo non è cambiato solo il paesaggio, ma lo sguardo.
Abbiamo smesso di riconoscerci in quella semplicità, come se il progresso avesse cancellato la continuità.
Perché i giovani la vedono così?
Perché nessuno gliel’ha più raccontata.
Perché la scuola corre, la televisione distrae, e la memoria non è più un dovere ma un lusso.
Perché crescono in un presente senza radici,
dove tutto ciò che è lento sembra vecchio
e tutto ciò che è vero sembra poco interessante.
Eppure basterebbe mostrare loro una foto come questa:
una famiglia, una casa di pietra, un sorriso timido.
Per ricordare che la storia non è solo nei libri,
ma negli occhi di chi c’era prima di noi.
📖 Chi dimentica le proprie radici finisce per non sapere più chi è.
E allora, la proposta è semplice
Ricominciamo a raccontare.
Sediamoci accanto ai nostri figli, ai nostri nipoti, e apriamo l’album di famiglia.
Lasciamo che le foto parlino, che i volti tornino a dire qualcosa.
Raccontiamo chi erano, dove andavano, cosa sognavano.
Perché la memoria non si conserva nei musei, ma nelle parole che passano di voce in voce, nelle sere d’inverno davanti al camino, o nelle estati trascorse su una sedia, sotto il pergolato, quando il tempo sembrava fermarsi.
Ogni foto è un frammento di noi:
una casa costruita con sacrificio, un vestito indossato la domenica, un sorriso che non si è mai perso del tutto.
E ogni racconto è un ponte che unisce chi c’era e chi verrà,
una piccola eredità di dignità, di umanità, di speranza.
Raccontare non significa restare fermi nel passato,
ma dare al futuro radici abbastanza forti da resistere al vento.
E forse, se torneremo a farlo,
i nostri ragazzi non chiederanno più:
«Mamma, ma di che epoca storica parliamo?»
Perché capiranno che quell’epoca vive ancora —
nella nostra voce, nelle nostre mani, nella nostra memoria.
Un abbraccio a tutti i Monteneresi nel mondo,
a chi porta nel cuore il profumo della nostra terra,
il suono del vento tra le montagne,
e quella luce che non smette mai di ricordare da dove veniamo.
✍️Il sognatore lento