
Dal ritorno in Abruzzo alla firma per la Germania, fino a Trento per un addio che segna la fine di un capitolo.
Settembre portava con sé un’aria diversa. Dopo il caos di agosto, i ritmi all’Hermitage rallentavano. Gli ospiti più mondani lasciavano l’isola, restavano le famiglie tranquille e i clienti stranieri abituati a viaggiare fuori stagione.
Per Matteo ogni giornata era un misto di stanchezza e attesa. Sentiva che la stagione stava per concludersi e che un altro capitolo si sarebbe aperto. La proposta del Savoy Hotel di Francoforte non era più soltanto un’idea: era una certezza che cresceva, e con essa l’ansia di un ragazzo di diciassette anni che si preparava al suo primo vero salto all’estero.
La sera, quando usciva con i colleghi, non rideva più con la stessa leggerezza di giugno. Il pensiero correva spesso alla Germania, a ciò che lo aspettava. Lì avrebbe dovuto misurarsi con una lingua che non conosceva, se non poche parole dette bene, e con un mondo nuovo, fatto di regole, abitudini e distanze mai sperimentate prima.
Intanto continuava il lavoro quotidiano: servire i vini, imparare ogni giorno qualcosa in più, ricevere incoraggiamenti e battute dagli chef de rang. Ma dentro, Matteo sapeva che la stagione all’Elba era ormai una tappa di passaggio, e che il suo destino lo stava già chiamando altrove.
Il ritorno a casa
Ai primi di ottobre, a stagione conclusa, Matteo tornò in Abruzzo, a casa sua. Ne aveva bisogno: doveva riposare, respirare l’aria di montagna, ritrovare il calore familiare.
Il pensiero della Germania, però, non lo abbandonava. Ogni tanto si diceva che forse era prematuro, che non era ancora pronto. Ma ormai non poteva più tirarsi indietro: la decisione era presa, il dado era tratto.
L’accoglienza in paese fu come sempre una piccola festa silenziosa. Per Matteo tornare alle origini era ogni volta una rinascita: rivedere i volti noti, i vicoli familiari, ascoltare i racconti degli anziani e i saluti semplici che valevano più di mille discorsi.
Anche altri amici erano tornati dalle stagioni estive, e così le serate passavano serene tra una partita a carte e un bicchiere di vino. Anzi, in quel periodo si usava molto bere vermouth, con o senza gazzosa, quasi un rito giovanile che accompagnava le chiacchiere e le risate.
A casa, in attesa
Quando si è a casa, tranquilli e coccolati, il tempo passa veloce. Matteo si godeva ogni momento: i pranzi con la madre, le chiacchiere con gli zii, le serate in paese. Intanto osservava con orgoglio il fratello più piccolo che cresceva: presto avrebbe cominciato le superiori a Lanciano, una bella soddisfazione per tutta la famiglia.
Intanto, le questioni pratiche prendevano forma. Con l’aiuto dello zio, Matteo sistemò la carta d’identità valida per l’estero, necessaria per poter partire. Era un gesto semplice, una firma in Comune, ma per lui aveva il sapore di un passaggio decisivo: senza quel documento non ci sarebbe stata alcuna Germania.
Il tempo di riposarsi non durò molto. Novembre si avvicinava e con esso l’appuntamento fissato con Antonio. Avrebbero dovuto incontrarsi a Verona il 3 novembre, in mattinata. Da lì, nel pomeriggio, avrebbero preso il treno diretto prima a Monaco e poi a Francoforte, destinazione finale: il Savoy Hotel.
L’ultimo incontro con Eleonora
Eppure, nei giorni che precedevano la partenza, Matteo ebbe un ripensamento. Decise di fare una deviazione e andare a Trento, per rivedere Eleonora. Voleva passare dal convitto, scambiare qualche parola, salutarla. E poi, da lì, scendere a Verona non era lontano: un’occasione che non poteva lasciarsi sfuggire.
Arrivò a Trento di mattina presto, come tante altre volte. Fece colazione in stazione, depositò i bagagli e si avviò verso la scuola. Camminando, la mente era piena di pensieri confusi: speranza, paura, il desiderio di un chiarimento.
Entrò nell’edificio e, con voce esitante, chiese alla signora della portineria se poteva chiamare Eleonora. Attese, con il cuore che batteva forte. Dopo qualche minuto la vide comparire in fondo al corridoio. Il cuore gli balzò in gola: era lei, con lo stesso passo leggero, lo stesso volto che tante volte aveva immaginato nei mesi lontani.
Quando le fu vicino, Matteo sorrise appena e disse:
— Ciao, Eleonora.
Lei lo guardò fredda, quasi distaccata.
— Che ci fai qui? — chiese con voce dura.
Matteo ingoiò il nodo alla gola.
— Devo andare in Germania… e sono passato per stare un pomeriggio insieme, per parlare un po’.
Ma la risposta fu un colpo al cuore:
— Non c’è niente di cui parlare. Devo rientrare in aula.
Quelle parole gli scavarono dentro. Non riuscì a replicare. Restò immobile, poi gli occhi si riempirono di lacrime che caddero silenziose, pesanti come chicchi di grandine. Non un gemito, non un gesto: solo pianto, improvviso e incontenibile.
Pian piano si girò, senza dire nulla, e si avviò verso l’uscita. Alle sue spalle, Eleonora lo chiamò:
— Fermati, aspetta!
Ma Matteo non si voltò. Tirò dritto, attraversò l’atrio e raggiunse la porta. La signora della portineria lo fermò un attimo:
— Giovanotto, la sta chiamando…
Matteo abbassò lo sguardo e uscì. Camminò fino alla fermata che conosceva bene. Il pullman arrivò subito dopo: salì ancora piangendo.
Il controllore, vedendolo così scosso, gli disse sottovoce:
— Forza, giovanotto… non sei il primo che entra qui piangendo.
Altri avevano avuto la stessa sorte.
Fu quella l’ultima volta che vide e parlò con Eleonora. Nel corso degli anni avrebbe sentito ogni tanto Elena, ma non chiese mai più notizie di sua sorella.