
Miseria e nobiltà sotto il profumo del forno
A Montenerodomo, fino agli anni Settanta, il pane non si comprava: si faceva
in casa.
Non era soltanto cibo, ma un gesto di appartenenza, una piccola liturgia domestica che univa il paese intero, casa per casa, forno per forno.
Chi ha vissuto quegli anni lo sa: il pane era una cosa seria.
Non si buttava mai, non si sprecava, e si preparava con un rispetto quasi religioso.
Era l’anima della casa, la misura dei giorni, il segno della fatica e della speranza.

Si cominciava la sera prima, quando la famiglia si raccoglieva nella cucina grande, attorno alla madia di legno.
La farina veniva versata a mucchio, come una piccola montagna chiara.
In un angolo, sotto un panno, riposava il lievito madre — “lu criscièture” — un impasto vivo e leggermente acido che passava di casa in casa, un’eredità collettiva che ogni donna custodiva con orgoglio.
Le mani delle donne impastavano con gesti decisi ma dolci, aggiungendo acqua tiepida e sale fino a ottenere una pasta liscia e compatta.
Il rumore dell’impasto sulla madia si mescolava al crepitio del fuoco e al ticchettio dell’orologio a muro.
Fuori, la notte scendeva silenziosa, e il profumo di farina e legna si confondeva con quello dell’aria di montagna.
Quando l’impasto era pronto, la donna di casa lo raccoglieva in una coppa di legno, lo copriva con un telo pesante e, prima di lasciarlo riposare, tracciava con le dita un segno di croce.
Un gesto antico, semplice, che nessuno avrebbe mai dimenticato.
Era una preghiera silenziosa: che lievitasse bene, che bastasse per tutti, che nessuno restasse senza.
“Dio ce la mandi buona”, sussurrava qualcuno, chiudendo la madia.
Il pane dormiva, e con lui la speranza del giorno dopo.
All’alba, la cucina si riempiva di luce e di voci: la massa era raddoppiata.
Allora si accendeva il forno.
Chi ne aveva uno a legna lo usava anche per i vicini; chi non l’aveva, portava il pane da cuocere altrove.
Con gli anni nacque il forno comune.
Non era grande, solo una bocca di pietra nera e viva, sempre pronta ad accogliere nuove infornate.
Apparteneva a una famiglia del paese, ma la sua fiamma era di tutti.
Chi non aveva il forno a casa portava lì la propria pasta, avvisando la mattina o la sera prima.
Si aspettava il turno con pazienza, scambiando due parole e un sorriso, mentre il profumo del pane cominciava a diffondersi nell’aria.
La pala di legno scivolava dentro il forno, le fiamme lambivano la pietra calda, e il profumo si spandeva per tutto il paese.
Era un odore che sapeva di casa, d’infanzia, di domenica.
I bambini, attirati da quel profumo, correvano verso le case da cui usciva il fumo, curiosi e affamati.
Spesso si fermavano sulla soglia, finché una voce materna li chiamava:
“Entra, vieni a scaldarti, assaggia.”
E arrivava il momento della ciambellina con lo zucchero, preparata con la stessa pasta del pane: piccola, calda, spolverata di dolcezza — il premio di chi sapeva aspettare.
Così un gesto quotidiano diventava una festa.
Il pane era la prova tangibile della solidarietà di un paese povero ma nobile:
chi non aveva farina, la riceveva da un vicino;
chi non aveva forno, trovava chi lo ospitasse;
e se il lievito si era “rotto”, qualcuno ne regalava un pezzetto per ricominciare.
Il lievito, vivo e capriccioso, passava di casa in casa come un ospite invisibile che non moriva mai.
Ogni settimana qualcuno bussava alla porta:
“Me ne dài nu puócch’, che lu mè s’è rutte?”
E il dono veniva fatto con naturalezza, perché il pane, a Montenerodomo, non era di uno solo: era di tutti.
Poi arrivò il forno moderno, quello “che non fuma e non brucia”, come dicevano le nonne.
Le massaie portavano lì il loro impasto, attendevano il turno, ricevevano un numero.
Il pane diventò più regolare, più facile — ma forse anche meno magico.
Eppure, ancora oggi, quando il forno del paese accende la brace e il profumo si diffonde nell’aria, sembra di rivedere quella scena:
le donne coi fazzoletti colorati, i cesti coperti da tovaglie, i bambini che aspettano la ciambellina.
Ogni volta è come se il tempo si fermasse un momento, per ricordare che la ricchezza non è fatta d’oro, ma di gesti che sanno di farina e di fiducia.
Quel pane, semplice e imperfetto, raccontava la storia di un paese intero:
di chi divideva, di chi aiutava, di chi aspettava.
Era il sapore della miseria e della nobiltà — la prova che anche con poco si può essere ricchi,
se si ha un forno acceso e qualcuno con cui condividere il pane caldo.
Il sognatore lento