📖 Articolo 2 – Il liceo e le prime fughe

Il Convitto Cicognini di Prato

Nel 1874, a undici anni, Gabriele D’Annunzio lasciò Pescara per trasferirsi a Prato, dove fu ammesso al Convitto Cicognini, uno degli istituti più prestigiosi dell’Italia post-unitaria.
Per il giovane abruzzese non fu soltanto un cambiamento di città, ma l’ingresso in un mondo nuovo, regolato da codici più rigidi, da un sapere strutturato, da un’idea di formazione che mirava a plasmare caratteri prima ancora che intelligenze.

Il distacco dalla famiglia e dalla terra d’origine fu netto.
Pescara, con il suo mare e la sua vitalità irregolare, lasciava il posto a una città ordinata, severa, profondamente segnata dalla tradizione umanistica toscana.


L’inizio della formazione superiore

Il Cicognini rappresentava un’eccellenza.
Qui si formavano le future classi dirigenti: studio del latino e del greco, retorica, letteratura classica, rigore morale.
Era un ambiente che esigeva disciplina, applicazione, rispetto delle gerarchie.

D’Annunzio si dimostrò subito uno studente brillante.
La sua memoria era eccezionale, la capacità di assimilare testi e versi sorprendente.
Primeggiava nelle materie letterarie e umanistiche, mostrando un rapporto istintivo con la parola scritta.

Ma quella brillantezza non si traduceva in obbedienza.
Il giovane Gabriele accettava lo studio, non la forma.
Assorbiva i contenuti, ma respingeva il contenitore.


Una disciplina accettata a metà

Il convitto imponeva orari, silenzi, regole precise.
Per molti studenti era un percorso naturale.
Per D’Annunzio, invece, era una tensione continua.

Non contestava apertamente l’autorità, ma non si lasciava modellare del tutto.
Dietro l’apparente adattamento cresceva una distanza interiore:
la sensazione che quel sistema non fosse fatto per contenerlo.

La scuola lo nutriva intellettualmente, ma lo limitava come individuo.
Ed è in questa contraddizione che maturò il suo primo vero conflitto con l’istituzione.


Letteratura e teatro come vie di fuga

Se la struttura scolastica gli stava stretta, la cultura gli offriva un rifugio potente.

Negli anni di Prato, D’Annunzio approfondì la conoscenza dei classici, sviluppando un rapporto sempre più intenso con la poesia e con il teatro.
Non leggeva in modo passivo: interiorizzava, imitava, rielaborava.

Il teatro, in particolare, esercitava su di lui un fascino profondo.
La scena gli appariva come il luogo in cui la parola diventava corpo, gesto, dominio sugli altri.

Non si trattava ancora di un progetto artistico compiuto, ma di un’intuizione chiara:
la parola non era solo bellezza, era potere.


Le prime scritture consapevoli

Proprio in questi anni iniziarono le prime prove poetiche più strutturate.
Non semplici esercizi scolastici, ma tentativi di affermazione personale.

Scrivere significava sottrarsi alla disciplina imposta e costruire un’identità alternativa.
La pagina diventava spazio di libertà, ma anche di ambizione.

D’Annunzio non scriveva per imitare soltanto.
Scriveva per emergere.


Le fughe verso Firenze

Prato, pur culturalmente viva, non gli bastava.
La vera attrazione era Firenze.

Ogni occasione diventava buona per avvicinarsi alla città dell’arte, delle biblioteche, dei teatri.
Firenze rappresentava il centro simbolico della cultura italiana, il luogo dove la letteratura sembrava ancora respirare.

Qui D’Annunzio entrava in contatto con un ambiente più ampio, meno controllato, più vicino alla sua idea di vita intellettuale.
Non erano fughe scandalose, ma evasioni culturali, atti di autonomia silenziosa.


Solitudine e costruzione del sé

In questi anni, la solitudine divenne una componente stabile della sua crescita.
Non come isolamento, ma come spazio di concentrazione.

Leggere, scrivere, osservare:
Gabriele iniziava a percepirsi come diverso, destinato a qualcosa che superava il percorso scolastico ordinario.

Non era arroganza adolescenziale.
Era una consapevolezza che prendeva forma lentamente, alimentata dal confronto continuo tra ciò che era richiesto e ciò che sentiva di poter essere.


La voglia di grandezza

Il Cicognini non riuscì mai davvero a contenerlo, ma contribuì a rafforzare una convinzione fondamentale:

la grandezza non nasce dall’adattamento, ma dalla sfida.

D’Annunzio non voleva essere un buon allievo.
Voleva diventare una figura riconoscibile, un nome destinato a restare.

Ogni poesia, ogni lettura, ogni fuga verso Firenze erano tappe di un progetto ancora informe, ma già chiarissimo nella sua direzione.


Verso Roma

Quando il periodo di Prato si avviò alla conclusione, D’Annunzio non era più un

ragazzo promettente.
Era un giovane che aveva già scelto la propria strada.

Roma lo attendeva come luogo naturale della consacrazione.
Il centro politico e culturale del Paese rappresentava la scena più ampia su cui misurarsi.

Il Convitto Cicognini restò come un passaggio necessario:
il luogo della disciplina rifiutata,
della cultura assimilata,
della ribellione silenziosa.

Da lì in poi, il percorso non avrebbe più conosciuto ritorni.

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