Capitolo 4 – Il bambino che respirava a fatica

Rosario, 1928. Celia de la Serna tiene tra le braccia il neonato Ernesto, che respira a fatica ma non si arrende. “Respira, Ernesto, respira. Il mondo ti aspetta.” In quel primo respiro comincia un destino che nessuno può ancora immaginare.

Prima della strada, c’era il respiro.
Prima del viaggio e delle rivoluzioni, c’era un bambino che imparava a lottare contro l’aria.
Tutto cominciò così: con un respiro che voleva diventare destino.

Rosario, giugno 1928.
Il cielo aveva un colore di fiume, e il fiume il respiro del cielo.
Nel silenzio tiepido di una casa affacciata sul Paraná, nacque un bambino che subito sembrò lottare con l’aria. Piangeva a scatti, come se ogni respiro fosse un piccolo duello. La madre lo prese tra le braccia, lo avvolse in una coperta chiara e gli sussurrò parole che nessun medico avrebbe potuto prescrivere: “Respira, Ernesto, respira. Il mondo ti aspetta.”

Ernesto Guevara de la Serna.
Un nome lungo, pieno di echi familiari e promesse antiche.
Il padre, Don Ernesto Guevara Lynch, lo guardava con un orgoglio trattenuto, misto a preoccupazione. Aveva letto troppo per credere nei miracoli, ma abbastanza per capire che la volontà può cambiare il destino. La madre, Celia de la Serna, donna colta, libera e ironica, aveva ereditato dalla borghesia argentina l’educazione e il gusto, ma non la vanità. Credeva nella cultura, nell’uguaglianza, nella libertà.

La casa di Rosario era modesta, ma piena di libri e voci.
Gli amici del padre parlavano di politica e di poesia, la madre di filosofia e di arte. Si discuteva di tutto, e soprattutto si discuteva bene. Ernesto, ancora piccolo, imparò che il mondo si divide in chi accetta e in chi domanda.
E lui, già allora, apparteneva alla seconda categoria.

Il primo ricordo della sua infanzia fu un attacco d’asma.
Aveva pochi mesi, e la tosse lo scuoteva come una tempesta.
Celia vegliava accanto al letto, contava i respiri come si contano le ore. Ogni volta che il bambino sembrava cedere, lei gli stringeva la mano e gli parlava piano: “Non mollare. Il respiro è un modo di dire al mondo che ci sei.”
Quella frase, senza saperlo, gli rimase dentro per sempre.

Quando i medici consigliarono di trasferirsi in un clima più secco, la famiglia si spostò a Córdoba, tra le colline dell’Argentina centrale.
La casa era più piccola, ma circondata da vento e pini.
Lì Ernesto imparò ad amare la natura, i cavalli, le nuvole che correvano libere come pensieri difficili da trattenere.
Era un bambino curioso, ostinato, con la fronte alta e lo sguardo già troppo profondo per la sua età.
Non poteva correre come gli altri, ma osservava meglio di tutti.

Le crisi d’asma arrivavano come ospiti indesiderati.
A volte lo trovavano in giardino, mentre giocava con un pallone; altre, di notte, lo costringevano a sedersi sul letto e respirare a forza.
Il padre gli passava accanto, senza dire troppo, e gli accendeva una sigaretta per farlo tossire — un rimedio d’altri tempi, efficace e assurdo insieme.
“Non è la tosse che ti ferma, Tete”, gli diceva. “È la paura. Ma quella si comanda.”
Ernesto annuiva, con il viso sudato, e imparava la prima lezione: la paura si batte respirando più forte.

Córdoba, anni ’30. Il piccolo Ernesto gioca a pallone nel cortile polveroso, correndo dietro al respiro e ai sogni. Ogni partita è una sfida all’asma, ogni corsa una dichiarazione di libertà.

Cresceva leggendo tutto ciò che trovava: avventure, filosofia, scienza.
La madre gli portava libri di Darwin, Verne, Cervantes. Il padre gli raccontava storie di esploratori e rivoluzioni.
Il piccolo Ernesto ascoltava in silenzio, poi faceva domande che spiazzavano gli adulti.
“Papà, ma perché alcuni hanno tanto e altri niente?”
“Perché il mondo è ingiusto.”
“E chi lo aggiusta?”
“Chi non si rassegna.”

Giocava con i fratelli, ma spesso si isolava a leggere.
Amava le mappe, le linee che collegano i luoghi lontani.
Tracciava con le dita i confini dell’America Latina, senza sapere che un giorno li avrebbe attraversati davvero.

Il suo corpo fragile gli insegnò la pazienza.
La mente vivace, invece, gli insegnò la ribellione.
Era un bambino che si innervosiva davanti all’ingiustizia, che difendeva gli amici presi in giro, che si arrabbiava se qualcuno maltrattava un animale.
“È testardo come un mulo”, diceva la nonna.
“No,” correggeva Celia, “è coerente.”

La casa di Córdoba era spesso piena di ospiti: scrittori, artisti, gente che discuteva di politica mentre i bambini giocavano sul pavimento.
Ernesto ascoltava, con la testa appoggiata al tavolo.
Capiva poco, ma sentiva che quelle parole avevano peso.
Una volta chiese alla madre: “Cosa vuol dire ‘rivoluzione’?”
Lei sorrise. “Vuol dire cambiare ciò che fa male.”

A undici anni, Ernesto cominciò a scrivere un diario.
Era un quaderno con la copertina verde, dove annotava pensieri, schizzi e riflessioni.
Scrisse: “Mi piace la gente che non scappa. Anche se perde, non scappa.”
Era già una dichiarazione d’intenti.

Nonostante la malattia, amava lo sport.

Córdoba, un pomeriggio d’infanzia. Ernesto legge accanto alla finestra, immerso nel silenzio e nei suoi pensieri. Tra un libro e l’altro, scopre che la conoscenza è un viaggio — e che ogni pagina può aprire una strada.


Giocava a rugby, e in squadra lo chiamavano El Fuser, abbreviazione di Furibondo Serna.
Il soprannome gli piaceva: raccontava la sua energia compressa, la rabbia buona di chi non accetta limiti.
Ogni caduta era una lezione di resistenza.
Ogni partita, una sfida alla debolezza.

Nel tempo libero, aiutava il padre nei lavori di falegnameria o si rifugiava nei libri di medicina.
Gli affascinava il corpo umano: le sue fragilità e la sua forza.
Diceva alla madre: “Forse un giorno capirò come aggiustare le persone.”
E lei rispondeva: “Comincia da te.”

Córdoba, con le sue colline e il suo vento, fu la sua prima maestra.
Gli insegnò che la libertà ha sempre un prezzo: la fatica di respirare.
E che la speranza, come l’aria, non si vede ma si sente.

Col passare degli anni, il respiro migliorava, ma l’inquietudine cresceva.
Ernesto voleva capire di più.
Guardava i contadini lavorare nei campi, ascoltava i racconti dei vicini poveri, leggeva i giornali e si indignava per ciò che succedeva nel mondo.
Non era ancora un ribelle, ma portava già dentro la scintilla di chi non sopporta l’ingiustizia come destino.

Il padre gli regalò un giorno una piccola bussola.
“Ti servirà, prima o poi”, disse.
Ernesto la prese in mano e la fece ruotare.
L’ago puntava sempre verso nord, ma lui, sorridendo, sussurrò:
“Un giorno la farò girare io.”

Córdoba, una sera qualunque. Don Ernesto porge al figlio una piccola bussola d’ottone. “Ti servirà, prima o poi”, gli dice. Il ragazzo la stringe tra le dita e sorride: ancora non lo sa, ma quella bussola segnerà la direzione di tutta la sua vita.

Non poteva immaginare quanto quella frase sarebbe diventata profezia.
Il bambino che respirava a fatica stava imparando a sfidare l’aria, e con essa il mondo.
Ogni respiro era una vittoria, ogni pagina letta un passo avanti verso la coscienza.

E quando, anni dopo, avrebbe attraversato l’America Latina in sella a una moto cigolante, portando con sé solo un quaderno e un sogno, avrebbe capito che tutto era cominciato lì:
nella stanza di una casa di Rosario, tra il respiro corto e la voce della madre che diceva piano —
“Respira, Ernesto, respira. Il mondo ti aspetta.”

Il Sognatore lento