
Córdoba gli aveva insegnato a respirare, ma non a restare fermo. Crescendo, Ernesto scoprì che la quiete lo irritava come una camicia troppo stretta. A scuola lo ricordano per due cose: la memoria rapida e l’ironia che spiazzava i professori. Non era insolente — era curioso, e la curiosità, in certi giorni, suona come una sfida.
L’asma decideva i ritmi, ma lui decise il resto. S’alzava presto, faceva esercizi strani suggeriti da un medico amico del padre, poi studiava con una concentrazione che i compagni gli invidiavano. A volte, a metà mattina, il petto si stringeva come una mano chiusa; allora si sedeva, contava i secondi, aspettava che l’aria tornasse a farsi spazio. Quando il respiro riprendeva il suo corso, lui riprendeva il mondo.

Scoprì i campi da rugby per caso, seguendo un amico più grande. Lo soprannominarono El Fuser — fusione di furibondo e Serna — perché in campo non arretrava neanche di un passo. Un compagno gli disse: “Tu non hai paura?”. “Certo che ce l’ho,” rispose, “ma corre più piano di me.” Nelle mischie trovava il modo di misurare i limiti del corpo senza farsene dominare; nella fatica con i compagni scopriva un’alleanza che nessun libro racconta bene.
La sera, però, restava il ragazzo dei libri. Verne gli aprì il mare, Darwin la terra, Cervantes gli insegnò a ridere della serietà. Accanto ai romanzi e alla scienza, entrarono piano la filosofia e la politica: quei nomi lunghi e ostinati — Ortega y Gasset, Marx, Sarmiento — che tornavano nei discorsi dei grandi e che lui cominciò a frequentare in silenzio. Non cercava dogmi; cercava mappe.
Scriveva. Riempiva quaderni di frasi, diagrammi, liste: “Cose che capisco”, “Cose che non capisco”, “Cose che voglio vedere”. In una pagina, tracciò una riga verticale: a sinistra “corpo”, a destra “mondo”. Sotto il primo titolo elencò l’asma, il dolore, la febbre; sotto il secondo, la povertà, l’ingiustizia, la paura. In fondo scrisse: “Le due liste hanno gli stessi sintomi”.
Nell’adolescenza arrivarono i primi amori. Una ragazza dagli occhi scuri che rideva senza alzare la voce, un’altra che gli prestò un libro e gli lasciò dentro un biglietto: “A volte basta cambiare strada per trovare aria nuova.” Ernesto rispose con una poesia storta, più sincera che bella. Le storie si consumarono come succede a quell’età: in fretta, ma lasciando un segno. Imparò che l’amore è una forma di lealtà verso la fragilità dell’altro; una frase che anni dopo gli sarebbe tornata utile con altri significati.

Intanto, il padre continuava a parlargli come a un pari. “Gli uomini si dividono in due: quelli che giustificano tutto e quelli che non giustificano niente. Tu prova a stare in mezzo: capisci, ma non scusare.” La madre gli insegnava l’altra metà: “Non dimenticare la gentilezza. Un’idea è forte solo se non calpesta nessuno.” Tra quelle due voci nacque il suo passo.
Arrivarono i piccoli viaggi. In bicicletta lungo strade bianche, col vento che mordeva le guance e la polvere che s’incollava ai denti. In treno verso paesi che sembravano lontanissimi e invece erano soltanto dietro la collina. Portava con sé pane, un po’ di mate, un quaderno, la bussola d’ottone del padre. La tirava fuori ogni tanto, non per orientarsi davvero, ma per ricordarsi che un ago, anche se vibra, trova sempre il nord. “Un giorno,” scrisse, “capirò quale nord cercare.”
Le crisi d’asma non lo abbandonavano. Lo coglievano spesso a sera, come cani che ritrovano la traccia. A volte si arrabbiava, rovesciava l’acqua del bicchiere, imprecava contro un dio in cui non credeva e a cui però si rivolgeva. Poi respirava, lento, contando fino a quattro. Quando la gabbia toracica smetteva di graffiare, prendeva il quaderno e appuntava: “La malattia è un maestro crudele, ma le sue lezioni non si dimenticano”.
Tra i quindici e i diciassette anni spuntò un tratto che non lo avrebbe più lasciato: l’avversione per le ingiustizie piccole. Non tollerava i soprusi a scuola, le prese in giro agli ultimi, il silenzio di chi guarda altrove. Interveniva, spesso con una battuta. Un professore lo chiamò in corridoio: “Vuoi sempre avere l’ultima parola, Guevara?” “No, professore,” rispose serio. “Vorrei che fosse la prima giusta.”

I giornali raccontavano un mondo che stava cambiando e che sembrava sempre altrove. L’Europa usciva dalla guerra con cicatrici visibili anche da Córdoba, l’America Latina oscillava tra speranze e dittature, gli Stati Uniti proiettavano un’ombra lunga. Ernesto seguiva le notizie come si segue una serie; più le leggi, più ti riguardano. In un articolo lesse di una protesta di minatori in Cile; segnò sul quaderno: “Cile — miniere — lavoro — vita breve”. La lista diventò una promessa vaga.
Verso la fine delle scuole superiori, la scelta della facoltà non gli concesse esitazioni: Medicina. “Perché?” gli chiese un amico. “Perché curare è l’unico mestiere in cui le mani e la mente devono andare d’accordo.” E, dopo una pausa: “E perché non sopporto l’idea di essere inutile.” L’iscrizione fu una festa dimessa: un pranzo in famiglia, due brindisi, il padre che ricordò la bussola, la madre che gli regalò uno stetoscopio usato. “Non ascolterà solo cuori,” disse, “ma anche bugie.”
Buenos Aires lo accolse con il rumore delle città che non dormono. L’università era un alveare; gli studenti correvano da una lezione all’altra come messaggeri d’idee. Ernesto annotava con scrittura densa, chiedeva, confutava, ascoltava. Scoprì che lo appassionavano le malattie che hanno poco di romantico e molto di reale: tubercolosi, lebbra, insufficienze di tutto. Ogni diagnosi era, per lui, un racconto; ogni cartella clinica, una biografia interrotta.
Fece amicizia con ragazzi che la pensavano in modo diverso. Alcuni accesi, altri scettici, qualcuno cinico. Con tutti discuteva fino a notte. Un compagno comunista gli regalò un libretto; lo lesse senza convertirsene. “Non voglio un catechismo,” disse, “voglio una lente.” Un altro parlava solo di scienza e lo rimproverava: “La politica confonde.” “La vita confonde di più,” rispose Ernesto. “La scienza serve se sa per chi.”

Nonostante i ritmi, trovava il tempo per andare nei quartieri poveri con un gruppo di volontari. Non era eroismo; era studio applicato. Vedeva case che non meritavano quel nome, malattie che si chiamavano con diminutivi per far meno paura, bambini coi piedi nudi e la febbre alta. Tornava in camera in silenzio, si lavava a lungo le mani come per togliersi qualcosa che non era sporco, poi scriveva fino a tardi. Una notte fissò una frase che avrebbe portato con sé per anni: “La compassione senza azione è coreografia”.
Tra un esame e l’altro, ripresero i piccoli viaggi. Non bastavano più le strade intorno a Córdoba; cercava linee più lunghe sulla mappa. Con Alberto Granado — più grande, più scanzonato, amico come pochi — iniziò a progettare il sogno che presto li avrebbe portati lontano. Tirarono fuori la bussola, distesero un foglio, immaginarono curve e soste. “Dove andiamo?” “A vedere.” “A capire.” La moto, ancora senza nome, li guardava dal cortile come un animale in attesa.
La casa di Buenos Aires, rispetto a quella di Córdoba, aveva meno cielo. Ma la madre gli scriveva lettere piene di vento, il padre lo incitava a non smettere di chiedere. Ogni tanto tornava a trovarli. Camminavano insieme per strade note, e lui notava dettagli che prima gli sfuggivano: le mani dei muratori all’alba, il ritmo degli ambulanti, le donne con la borsa della spesa e gli occhi stanchi. “La città ha un polso,” pensò. “Basta appoggiarci lo stetoscopio.”

Il ragazzo che non sapeva stare fermo capì che la stasi più pericolosa non è del corpo ma della coscienza. Restare immobili dentro mentre fuori il mondo cambia è un modo elegante di scomparire. Per questo, forse, cercava sempre un altrove — non per fuggire, ma per misurarsi.
Alla fine di uno di quei giorni senza respiro, mentre il tramonto arrossava i muri, Ernesto aprì il quaderno e scrisse una lista nuova:
- imparare a curare davvero;
- vedere la miniera;
- parlare con chi non parla mai;
- attraversare un fiume;
- non diventare cinico.
Poi guardò la bussola. L’ago oscillò, trovò il nord. Ernesto sorrise di taglio. “Ancora un po’,” mormorò. “Poi si parte.”
Non sapeva che la partenza avrebbe cambiato i verbi con cui pensava. Non più “capire”, ma “prendere parte”. Non più “studiare”, ma “stare”. Non più “io”, ma “noi”. Ma tutto questo, allora, era solo un rumore di fondo. In primo piano c’era un ragazzo magro, testardo, curioso, che non sapeva stare fermo e che stava per imparare che la strada non è una fuga: è una forma di respirazione.
Il Sognatore lento
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