Capitolo 1 – El Che – Il viaggio che non finì mai

Dall’altopiano argentino al mito universale di un uomo che volle cambiare il mondo


Premessa

Premessa

Ci sono viaggi che si concludono con un ritorno e altri che continuano anche dopo la fine della strada. Viaggi che non appartengono più a chi li ha compiuti, ma a chi li ascolta, li legge, li sente vibrare nel proprio tempo.
Il viaggio di Ernesto Guevara, che il mondo conosce come “El Che”, è uno di questi: un cammino che non finì mai, perché continua a parlarci — non di ideologia, ma di ricerca, di sete di giustizia, di inquietudine.

In queste pagine non c’è l’eroe del mito, ma l’uomo che ne fu l’origine: un giovane medico argentino, ventiquattrenne, pieno di sogni e di asma, di studi e di domande, di desiderio e di compassione. Ernesto non partì per cambiare il mondo: partì per conoscerlo. Non aveva ancora la barba dei rivoluzionari, né la retorica dei comizi. Aveva un quaderno, una moto chiamata La Poderosa II e una fame interiore che nessun titolo accademico poteva saziare.

Questo libro nasce dal bisogno di restituire al suo viaggio la dimensione umana, quella che la Storia spesso dimentica quando trasforma le persone in simboli. Perché dietro ogni bandiera c’è sempre un respiro, e dietro ogni rivoluzione c’è sempre un dubbio.
La giovinezza di Ernesto è fatta di domande più che di certezze, di fatiche, di notti senza fiato, di lettere alla madre scritte a metà, di amicizie che diventano destino. È fatta di un’America Latina che non è soltanto una terra, ma un corpo immenso e ferito che egli vuole comprendere, curare, abbracciare.

Raccontare “El Che” oggi, a settant’anni da quel viaggio, non significa evocare nostalgie politiche o vecchi slogan. Significa tornare a interrogarsi sul senso stesso del partire, sul bisogno di guardare con i propri occhi invece che con quelli altrui.
Perché quel giovane, attraversando deserti, miniere, villaggi e lebbrosari, ci ha lasciato un’eredità più grande delle sue azioni: la consapevolezza che comprendere il dolore del mondo è già un primo atto di ribellione.

Viviamo in un tempo in cui i viaggi sembrano tutti uguali, consumati nel gesto automatico di un clic. Ma quello di Ernesto fu un viaggio vero, fatto di polvere, fame, freddo, incontri. Un viaggio che trasformò la geografia in coscienza, e la strada in maestra.
Ogni tappa, ogni volto, ogni fatica fu una lezione. E nel Perù, davanti ai lebbrosi del San Pablo, Ernesto imparò che la dignità non ha cura se non l’uguaglianza. Quella sera, attraversando il fiume a nuoto, non attraversò solo un confine geografico: passò dall’infanzia alla responsabilità.

Ho scelto di raccontare questa storia come un romanzo, non come una biografia.
Perché la verità che cerco non è nei documenti, ma nelle emozioni. Voglio mostrare il ragazzo che osservava le mani dei poveri, che rideva con gli amici, che scriveva i propri pensieri come se ogni frase potesse salvarlo da qualcosa.
Il romanzo permette di fare ciò che la storia, da sola, non può: restituire il battito.

Il titolo Il viaggio che non finì mai nasce da un’intuizione semplice: nessun viaggio autentico termina davvero.
Il cammino di Ernesto prosegue in chiunque senta la necessità di capire prima di giudicare, di agire prima di arrendersi, di sognare pur sapendo che i sogni costano fatica.

Scrivere questo libro è stato, per me, un modo di riaccendere quella scintilla. Non per trasformarla in ideologia, ma per restituirle il suo significato originario: la ricerca di una giustizia che comincia nel cuore e si allarga al mondo.

Ogni generazione ha il proprio viaggio.
Quello di Ernesto Guevara, iniziato con una moto e un quaderno, continua ancora oggi — in chi parte, in chi resta, in chi crede che la libertà non si conquista una volta per tutte, ma si difende ogni giorno.
Ed è per questo che il suo viaggio, come ogni grande storia umana, non finì mai.


Il Sognatore lento