
L’arrivo a Roma (1879)
Nel 1879, appena conclusi gli studi al Liceo Cicognini di Prato, Gabriele D’Annunzio si trasferì a Roma.
Aveva solo sedici anni, ma già la sicurezza di chi si sente chiamato a qualcosa di grande.
Non cercava tranquillità: cercava la gloria.
Roma, allora, era una città in fermento. Capitale del giovane Regno d’Italia, viveva una stagione inquieta e vitale: carrozze sui sampietrini, salotti affollati, redazioni rumorose, tipografie impregnate d’inchiostro.
Per il ragazzo abruzzese cresciuto tra mare e vento, quella città appariva come un orizzonte da conquistare.
Si sistemò in una piccola stanza nei pressi di via delle Coppelle, non lontano dal Pantheon. Scriveva di notte, alla luce tremolante di una candela, accanto a una finestra che odorava di pioggia e carta stampata.
Ogni verso era una sfida, ogni parola una promessa.
“Primo Vere” – la prima primavera (1879–1880)
A soli diciassette anni D’Annunzio pubblicò a proprie spese la sua prima

raccolta poetica, Primo Vere.
Il titolo, tratto da Virgilio, significava “prima primavera”. E così fu: non solo un debutto letterario, ma una dichiarazione di esistenza.
I versi erano sensuali, colti, talvolta sfrontati. Non sembravano le poesie di un ragazzo, ma di un giovane già proteso verso il sublime.
La critica si divise: qualcuno parlò di presunzione, altri intuirono un talento fuori dal comune. Ma nei caffè e nelle redazioni romane cominciò a circolare un nome nuovo: quel D’Annunzio di Pescara.
Si racconta che, durante un ricevimento letterario, qualcuno abbia letto ad alta voce un suo verso.
Una dama si voltò e chiese:
— «Chi scrive così, a diciassette anni?»
E qualcuno rispose:
— «Un ragazzo che non ha paura di sembrare immortale.»
Le prime scoperte e gli amori giovanili

Roma non gli offrì soltanto la poesia, ma la vita.
D’Annunzio era povero, ma elegante; giovane, ma già consapevole del potere della parola. Nei caffè, nei teatri, nei salotti conobbe artisti, giornalisti, donne.
Tra le figure femminili che attraversarono la sua giovinezza romana — spesso più immaginate che possedute — una resta come un’ombra ricorrente nelle sue memorie: Alba, moglie di un diplomatico francese.
Si incontravano ai giardini di Villa Borghese, nei pomeriggi di primavera. Lei parlava di musica, lui rispondeva in versi improvvisati.
Un giorno le donò un piccolo mazzo di violette.
Lei sorrise:
— «Sei un ragazzo, ma le tue parole sanno di fuoco.»
E lui rispose:
— «Non sono parole. Sono fiamme che scrivo per non bruciarmi.»
Quando Alba lasciò Roma, non si rividero più. Ma nelle poesie giovanili affiora spesso una figura lontana, malinconica, quasi divina: la prima di molte muse perdute.
L’amore, per lui, diventava già un atto d’arte e di potere.
I salotti dell’intelligenza (anni Ottanta)
Negli anni Ottanta Roma divenne il suo palcoscenico.

Nei salotti di Piazza di Spagna, di via del Corso, nei palazzi aristocratici, si incontravano letterati, nobildonne, musicisti. In quei luoghi si decideva il gusto, la reputazione, il successo.
D’Annunzio, con i suoi abiti curati e la parola precisa, divenne presto una presenza ricercata. Sapeva ascoltare, osservare, rispondere con ironia. Recitava versi, ma soprattutto recitava se stesso.
Le donne lo trovavano affascinante. Gli uomini lo guardavano con diffidenza.
Qualcuno lo definì “un attore in cerca di pubblico”.
Lui rispose sorridendo:
— «Ogni poeta è un attore. Pochi sanno recitare la propria vita.»
Il giornalista e il cittadino del mondo
Per vivere, iniziò a scrivere per giornali e riviste: La Tribuna, Il Fanfulla della Domenica, La Gazzetta Letteraria e altre testate dell’Italia postunitaria.
Scriveva di teatro, di costume, di società, di politica. Ma ogni articolo diventava un piccolo spettacolo letterario.
Non descriveva: metteva in scena.

Lo si poteva incontrare nei caffè di Piazza Colonna o nei pressi del Teatro Argentina, intento a osservare la folla. Annotava tutto: un gesto, una risata, un profumo che passava.
Ogni dettaglio diventava materia narrativa.
Il giornalismo lo educò alla rapidità, al ritmo, alla precisione.
Imparò a guardare il mondo con l’occhio del narratore.
«Roma è un teatro che non chiude mai il sipario», scrisse all’amico Edoardo Scarfoglio.
E davvero lo credeva.
Le opere e la maturazione (1882–1888)
Gli anni successivi furono un laboratorio continuo.
Nel 1882 pubblicò Canto novo, dove la natura si fece canto dell’anima.
Nel 1884 uscì Intermezzo di rime, più maturo e raffinato, segnato da un estetismo sempre più consapevole.

Nel frattempo, tra articoli e serate mondane, coltivava relazioni decisive. Conobbe Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao, figure fondamentali per comprendere il potere della parola pubblica.
Frequentava teatri, caffè, redazioni. Roma diventava per lui un microcosmo narrabile.
Qui maturò una convinzione che non lo avrebbe mai abbandonato: vivere e scrivere devono coincidere.
Verso la maturità
Nel 1888 D’Annunzio non era più un prodigio giovanile.
Era un autore riconosciuto, con uno stile inconfondibile e una presenza già mitica. Aveva fatto della parola un’arma e del fascino una forma di potere.
Roma lo aveva trasformato: lo aveva reso moderno, sensuale, cosmopolita.
Era pronto a superare la poesia e tentare qualcosa di

nuovo: il romanzo.
Da lì a poco sarebbe nato Il Piacere.
Conclusione
Tra il 1879 e il 1888, D’Annunzio visse la sua prima grande metamorfosi.
Da ragazzo di Pescara divenne poeta, giornalista, uomo di mondo.
Dietro ogni verso e ogni articolo restava l’eco dell’Abruzzo, del mare e del vento che lo avevano cresciuto.
Ma ora quella voce parlava una lingua nuova: la lingua della modernità, della seduzione, della vita come spettacolo.
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