
Il riIl ritorno, la quiete impossibile e la nascita di El Che.
Buenos Aires, marzo 1953.
Ernesto Guevara riceve il titolo di medico.
Il volto è serio, quasi assorto: nelle mani tiene un diploma, ma negli occhi brilla già un’altra strada.
In basso, la firma che accompagna ogni destino narrato: Il Sognatore Lento.
Il ritorno
La Poderosa II era rimasta indietro, dimenticata in qualche officina del Nord.
Ernesto rientrò a Buenos Aires con pochi soldi, una borsa consumata e un taccuino pieno di volti.
Le pagine del suo diario odoravano di polvere e benzina, di sogni e di fame.
Non c’erano frasi grandiose, solo appunti di un uomo che aveva visto troppo per restare lo stesso.
Si chiuse per settimane nella casa di famiglia, cercando di rimettere insieme la vita che aveva lasciato.
Completò gli esami, discusse la tesi di laurea in medicina nel marzo del 1953 e si sentì, per la prima volta, fuori posto.
Aveva raggiunto l’obiettivo per cui aveva studiato anni interi, ma non provava gioia.
Sentiva che la medicina curava i sintomi, non le cause.
E la causa, per lui, era una sola: l’ingiustizia.
L’inquietudine del ritorno
Buenos Aires gli appariva diversa, come se fosse diventata improvvisamente piccola.
Le strade eleganti, i caffè pieni, le conversazioni borghesi gli davano un senso di soffocamento.
Aveva visto troppa miseria nelle miniere del Cile, troppa dignità nei malati di San Pablo per accontentarsi della normalità.
Di notte scriveva:
“Ho capito che l’essere umano vale quanto la sua capacità di ribellarsi.”
Aveva venticinque anni e la sensazione che la vita stesse chiamando altrove.
Non sapeva ancora dove, ma sentiva che doveva muoversi — ancora una volta — per capire.
Il nuovo cammino
Nell’estate del 1953 partì di nuovo.
Lasciò l’Argentina senza rumore, con un passaporto logoro e un cuore che

batteva più forte del respiro.
Attraversò la Bolivia, il Perù e arrivò in Guatemala, dove conobbe da vicino una rivoluzione vera: quella del presidente Jacobo Árbenz, che cercava di restituire la terra ai contadini.
Lì vide per la prima volta come l’utopia può essere schiacciata dai poteri forti.
Nel 1954, un colpo di Stato orchestrato dagli Stati Uniti rovesciò Árbenz.
Ernesto era in strada, tra il fumo e la paura.
Scrisse sul diario:
“Qui ho capito che l’imperialismo è il male supremo. Da ora in avanti, la mia battaglia sarà contro di esso.”
Quel giorno nacque il Che.
Messico – 1955

Fuggito dal Guatemala, arrivò in Messico, stanco e povero ma lucido come mai prima.
Lavorava come medico, dormiva in pensioni modeste, ma la mente era in fermento.
Frequentava esuli politici, viaggiatori, studenti.
E una sera, in una casa piena di fumo e discussioni, incontrò un uomo alto, con la barba folta e la voce calda: Fidel Castro.
Si parlarono a lungo.
Non servivano molte parole: entrambi riconobbero nell’altro la stessa fiamma.
“Vieni con noi,” disse Fidel, “stiamo preparando la libertà di Cuba.”
Ernesto rispose con un sorriso breve:
“Dove si lotta contro l’ingiustizia, io sono a casa.”
Il nuovo nome
Fu allora che gli amici cominciarono a chiamarlo “Che” — un modo argentino di dire amico, fratello, compagno.
Ma in lui il soprannome prese un altro significato: un modo di essere, non solo di chiamarsi.
Non era più il medico argentino né il viaggiatore curioso.
Era diventato l’uomo nuovo, quello che non accetta la realtà come destino.
Scrisse a un amico:
“Non cerco la gloria. Cerco il punto in cui l’uomo e la giustizia coincidono.”
Verso la rivoluzione
Nel 1956, quando si imbarcò con ottantuno compagni sul Granma, Ernesto Guevara non portava più con sé soltanto strumenti medici.

Portava una convinzione che bruciava come febbre:
“Non basta sognare un mondo giusto. Bisogna costruirlo, anche a costo della vita.”
La nave lasciò il porto di Veracruz all’alba.
Il mare era agitato, il cielo basso, e i motori tossivano come la sua vecchia Poderosa.
Ma questa volta non c’era più un viaggio di scoperta.
C’era una missione.
E mentre l’orizzonte si apriva davanti a lui, Ernesto capì che non stava tornando indietro.
Aveva trovato il suo cammino, e non avrebbe più smesso di percorrerlo.
Nota dell’autore – Il soprannome di un destino
In Messico, tra il fumo delle stanze e le lunghe conversazioni sulla libertà, Ernesto aveva un modo di parlare che divertiva i cubani.
Ogni frase cominciava con la stessa parola: “Che…”
Era un’espressione argentina, familiare e amichevole, come dire “Ehi, amico”.
Gli altri guerriglieri, colpiti da quel modo di dire, iniziarono a chiamarlo per scherzo “El Che”.
Ma il soprannome, giorno dopo giorno, divenne qualcosa di più.
Non era solo un richiamo affettuoso: era il segno di un’identità nuova.
Quel “Che” racchiudeva la sua natura diretta, fraterna, vicina alla gente.
E così Ernesto Guevara de la Serna smise di essere soltanto un nome.
Diventò un simbolo, un suono breve e universale:
El Che — l’amico, il compagno, l’uomo che parla come tutti e per tutti.
✍️ Il Sognatore Lento