🔔 La voce del paese

Le campane di Montenerodomo nel tempo che fu

Non solo richiamo religioso, ma orologio collettivo: a Montenerodomo, le campane segnavano il ritmo della rinascita.
Scandivano le ore del lavoro, della festa e del lutto.
Oggi qualcuno le chiama “rumore”. Ieri erano voce, respiro, appartenenza.

C’era un tempo in cui gli orologi non comandavano la vita: la accompagnavano. Le ore non si guardavano al polso, ma si ascoltavano nell’aria.
Bastava aprire la finestra, e da qualche parte — su in alto, tra la pietra e il cielo — la campana diceva chi eravamo e cosa stavamo facendo.
Non era solo metallo che batteva: era il battito del paese, il filo invisibile che teneva insieme case, cortili, campi.


La lingua dei rintocchi

A Montenerodomo tutti conoscevano la lingua delle campane.
Un bambino distingueva la suonata della festa da quella del lutto, come si distingue una risata da un pianto.
C’era il suono pieno e gioioso della domenica, che faceva vibrare i vetri e riempiva la piazza di luce.
C’era il rintocco disteso delle processioni, che attraversava il paese come un respiro.
E poi c’era quello lento, profondo, del funerale: una goccia che non finiva mai di cadere.

Quando suonava così, le donne sospendevano il cucito, gli uomini smettevano di battere il ferro, i ragazzi abbassavano la voce.
“Chi è?” si chiedeva da un balcone. E il nome correva di bocca in bocca, fino a diventare preghiera.
Non servivano manifesti né altoparlanti: bastava la campana.


Il suono del mezzogiorno

A mezzogiorno, la voce del campanile arrivava come un invito.
Le cucine si risvegliavano, il pomodoro sobbolliva, le sedie strusciavano sul pavimento, e i bambini correvano a casa dal campo o dalla piazzetta.
Quel suono non ordinava: riuniva.
Era la misura di un luogo, il segno che il tempo era ancora condiviso.

Un vecchio del paese diceva:

“Non è il campanaro che sa l’ora. È il paese che gliela rimanda indietro come un’eco.”
E forse aveva ragione: perché la campana insegnava a respirare insieme, senza fretta, senza orologi digitali.


Il campanaro e la corda

Nel dopoguerra il campanaro era una figura rispettata.
Aveva le mani segnate dal ferro e dalla corda, e nella sagrestia una fune grossa pendeva come il prolungamento del cielo.
Tirava senza strappare, lasciava andare senza mollare — come si fa con le cose sacre.

“Non è forza, è misura”, diceva ai ragazzi che lo guardavano.
“Se tiri troppo, il suono si spezza; se trattieni, non arriva dove serve.”
Una lezione semplice e profonda, che valeva per la vita stessa.


Festa e paese

Durante le feste patronali — Sant’Antonio, San Fedele, San Rocco — il suono delle campane era festa pura.
Si confondeva con i tamburi, con le bande musicali, con il profumo dello zucchero filato e della porchetta.
Gli sposi avanzavano a braccetto, i bambini rincorrevano i confetti e qualcuno, dalla piazza, guardava in su verso il campanile, come per ringraziare.

Ma la campana più bella era quella del vespro d’agosto:
l’aria si faceva dolce, il sole scendeva dietro la Majella, e quel suono largo e profondo riempiva i valloni come un abbraccio.
Era la voce della sera, che diceva: “Bravi, avete fatto il vostro. Adesso riposatevi.”


Il filo del dolore

Non sempre, però, il suono era di festa.
Nei giorni di tragedia o d’incendio, la campana suonava come un richiamo d’allarme.
Gli uomini si vestivano in fretta, scendevano in piazza, si chiamavano per nome.
Finché la campana batteva, sapevano che non erano soli, che il paese si muoveva insieme.

E nei terremoti, quando la terra tremava e le case scricchiolavano, era proprio il ritorno del suono del campanile a dare forza: il segno che il paese c’era ancora.


Rumore o racconto

Oggi, qualcuno dice che le campane fanno rumore.
Ma chi è cresciuto in paese sa che quel suono non disturba: ricorda.
Ricorda chi siamo, da dove veniamo, e che il tempo non è solo un orologio ma un linguaggio comune.

Le campane di Montenerodomo hanno suonato per la guerra e per la pace, per i matrimoni e per i lutti, per i raccolti e per le feste.
Ogni colpo di bronzo è una pagina di memoria che continua a vibrare nell’aria.

Finché ci sarà una campana che suona,
ci sarà un paese che può riconoscersi.


📷 Montenerodomo – Il campanile nella nebbia del mattino (anni ’50)
✍️ Serie “Montenerodomo di un tempo” – Il Sognatore Lento