Capitolo 8 – La Sierra e il silenzio

Cuba, dicembre 1956.


La notte odorava di pioggia e di mare quando il Granma toccò la costa di Las Coloradas.
Ottantadue uomini stipati su una barca per venti, stanchi, affamati, con le armi arrugginite e i sogni lucidi.
Erano partiti dal Messico per liberare un’isola, ma al primo passo sulla terra cubana si trovarono in un pantano.

Fidel Castro saltò giù per primo, impugnando il fucile e urlando:

“¡Adelante, compañeros!”

Dietro di lui, tra i sacchi bagnati e le casse rovesciate, Ernesto Guevara

cercava di salvare la borsa dei medicinali.
Non era ancora Comandante Che: era ancora il dottore argentino, magro, con lo sguardo febbrile e l’asma che lo puniva come un avvertimento.

La spedizione era già in parte fallita.
Dopo pochi giorni furono sorpresi dalle truppe di Batista nella pianura di Alegría de Pío.
Molti morirono, altri si dispersero nella giungla.
Ernesto si ferì a un fianco e trovò rifugio in una palude.

“Mi nascosi nel fango,” avrebbe scritto poi, “ma non per paura. Solo per respirare senza che mi trovassero.”

Di ottantadue uomini, ne rimasero dodici.
Dodici uomini nel cuore della Sierra Maestra: una manciata di fucili, una radio, un sogno.


La Sierra

La Sierra Maestra era un mondo a parte.
Le montagne verdi e umide sembravano respirare con loro.
La nebbia scendeva come una coperta di silenzio, e la fame diventava abitudine.

Ernesto trasformò il suo zaino da medico in un ambulatorio improvvisato.
Con le lame di un coltello curava ferite, con la cenere disinfettava, con le foglie calmava la febbre.
I contadini lo chiamavano el doctor argentino, e i guerriglieri lo rispettavano per la calma con cui affrontava la sofferenza.

Non parlava molto, ma osservava tutto: la fatica, la paura, la speranza.
Annotava nel taccuino che teneva sempre vicino al petto:

“Ogni battaglia comincia dentro. Solo chi ha vinto se stesso può cambiare il mondo.”


Il comandante

Nel 1957 i ribelli erano diventati un piccolo esercito.
Avevano imparato a muoversi nella giungla, a sparire nel fogliame, a colpire e svanire.
I contadini li aiutavano, portando viveri e notizie.

Fidel riconobbe presto nel medico argentino qualcosa che andava oltre la scienza.
Ernesto non si limitava a curare: organizzava, motivava, scriveva.
Era disciplinato come un soldato e idealista come un poeta.

Quando uno dei comandanti cadde, Fidel lo chiamò davanti a tutti e disse:

“Da oggi, il dottore è Comandante Guevara.”

Nessuno applaudì, ma tutti annuirono.
La rivoluzione aveva trovato un nuovo volto.


Il fuoco e la fede

La guerra di guerriglia era lenta, spietata, logorante.
Le notti erano lunghe, piene di pioggia e di tosse.
Ernesto dormiva poco, scriveva molto.
Tra una battaglia e l’altra leggeva: Marx, Engels, poesia spagnola, manuali di chirurgia.
Sotto la giacca militare, il taccuino restava sempre asciutto.

Un giorno, un giovane combattente ferito gli chiese:

“Comandante, voi credete nella vittoria?”
E lui rispose:
“Io credo nella necessità. Se un popolo ha fame e coraggio, la vittoria è solo questione di tempo.”

Nella Sierra, El Che cominciava a prendere forma: un leader senza ambizione, un uomo che comandava per convinzione, non per gerarchia.


Il nemico e la montagna

Batista governava con il terrore.
Le truppe bombardavano i villaggi sospettati di aiutare i ribelli.
Ogni conquista costava sangue, ogni passo era un rischio.
Eppure, la montagna li proteggeva.

Nel marzo 1958, il gruppo di Guevara conquistò la zona di Las Mercedes.
In poche settimane organizzarono un ospedale, una scuola, un piccolo giornale: El Cubano Libre.
Il medico argentino scriveva articoli sulla giustizia e sulla dignità, alternando riflessioni a istruzioni militari.

“Non combattiamo per odio,” scrisse, “ma per amore verso ciò che l’uomo può essere.”


Verso Santa Clara

Nell’autunno del 1958 Fidel affidò a Guevara la missione più rischiosa:
attraversare l’isola da est a ovest e prendere la città di Santa Clara.
Era il cuore della rivoluzione.

La marcia durò più di due mesi.
Pioggia, fango, treni deragliati, villaggi in fiamme, bambini che portavano messaggi nascosti nei libri di scuola.

Quando arrivarono alle porte di Santa Clara erano poche centinaia, stremati ma decisi.
Il 28 dicembre 1958, dopo giorni di combattimento, El Che ordinò di far deragliare un treno militare carico di armi e soldati.
Fu il colpo decisivo: Batista fuggì da Cuba poche ore dopo.

Il 1° gennaio 1959, la colonna comandata da Guevara entrò a L’Avana.
La folla li accolse con grida, bandiere, lacrime.
Ernesto non alzò il pugno né il fucile.
Guardava la città come si guarda una ferita che ha smesso di sanguinare, ma non ha ancora guarito.


L’uomo e la storia

Dalla selva al potere, dal bisturi al fucile, Ernesto Guevara de la Serna era diventato El Che.
Il medico che curava le ferite era ora il comandante che curava un popolo.
Ma dentro di sé sapeva che la rivoluzione non era finita.
Non lo sarebbe mai stata.

Scrisse nel suo diario, poche settimane dopo la vittoria:

“Abbiamo vinto la guerra, ma non la giustizia.
Il giorno in cui mi sentirò a mio agio, saprò che è finita anche per me.”

Fidel lo abbracciò davanti al Palazzo del Governo.
Gli occhi dei due uomini, per un istante, furono quelli di chi sa di aver cambiato la storia — ma non di averla posseduta.


Cuba, 1959.
Il sole cadeva sul Malecón come una promessa fragile.
Tra la folla in festa, il Comandante argentino accese un sigaro, guardò il mare e pensò a Rosario, a Córdoba, alla madre, al fiume Paraná.
Poi scrisse una sola parola sul suo taccuino:

“Respirare.”


✍️ Il Sognatore Lento