
✍️ Il Sognatore Lento

Cuba, gennaio 1959.
La città di L’Avana era un’enorme piazza in festa.
Le strade, ancora intrise dell’odore acre della guerra, si riempivano di bandiere, di musica improvvisata, di volti che non avevano mai creduto davvero di poter vincere.
Il regime di Batista era caduto.
I ribelli scesi dalla Sierra Maestra camminavano adesso tra la folla, accolti come liberatori.
Sui muri apparivano scritte nuove: Patria o muerte. Revolución o nada.
In mezzo alla confusione, Ernesto Guevara avanzava in silenzio, la divisa ancora sporca di fango.
Non cercava applausi, non cercava gloria.
Camminava accanto a Fidel, ma guardava oltre.
Sapeva che la vittoria era solo l’inizio, e che il respiro della rivoluzione, come il suo, avrebbe presto conosciuto la fatica.
Il governo della speranza
Pochi mesi dopo la caduta di Batista, la rivoluzione si trasformò in governo.
Erano anni intensi, febbrili, pieni di entusiasmo e incertezze.
Gli uomini della montagna si trovarono all’improvviso seduti dietro a scrivanie, circondati da carte e decreti.
Ernesto, che aveva sempre diffidato del potere, divenne prima direttore del Banco Nazionale di Cuba, poi Ministro dell’Industria.
Fidel lo scelse perché sapeva che non avrebbe rubato, che avrebbe trattato i soldi come idee, non come denaro.
E infatti, quando gli chiesero di firmare le nuove banconote, El Che scrisse semplicemente “Che”, rifiutando i titoli e i formalismi.
Era il suo modo di dire che la rivoluzione apparteneva a tutti, non ai burocrati.
I primi anni furono di costruzione e sacrificio.
Si crearono scuole, cooperative, ospedali.
I giovani andarono nelle campagne per insegnare a leggere e scrivere.
Ernesto visitava le fabbriche, parlava con gli operai, annotava i bisogni della gente.
Ma più il sogno prendeva forma, più si accorgeva che il potere ha il vizio di somigliare a ciò che combatte.
L’uomo al potere
La vita a L’Avana lo soffocava.
I saluti ufficiali, le riunioni, le cerimonie: tutto gli sembrava un tradimento dello spirito della Sierra.
Indossava la divisa militare anche nei ministeri, per ricordare a sé stesso chi era.
Dormiva poche ore, lavorava fino a notte fonda, leggeva Marx e poesie di Neruda come medicine per l’anima.
Un giorno, una giovane giornalista gli chiese:
“Comandante, cosa significa per voi la rivoluzione?”
Lui la guardò con un sorriso stanco e rispose:
“Significa non abituarsi mai all’ingiustizia. Nemmeno quando la si amministra.”
Era sincero.
Sentiva che la rivoluzione rischiava di trasformarsi in governo, e il governo in abitudine.
E niente, per lui, era più pericoloso dell’abitudine.
Riforma e resistenza
Nel 1960 iniziò la grande riforma agraria.
Le terre delle compagnie americane furono espropriate e redistribuite ai contadini.
Per l’isola fu una svolta, ma per Washington fu una provocazione.
Gli Stati Uniti risposero con l’embargo.
La giovane Cuba si trovò sola, affamata, circondata dal sospetto.
Fu allora che Fidel decise di guardare a Est.
L’Unione Sovietica offrì aiuti, petrolio, grano, tecnici.
Ernesto non amava il comunismo sovietico: lo considerava rigido, dogmatico, senz’anima.
Ma capiva che, senza alleati, la rivoluzione non avrebbe resistito.
Firmò accordi, incontrò ambasciatori, parlò di “nuovo uomo socialista”.
Ma ogni volta che pronunciava quella parola — “uomo” — sapeva che non stava parlando di ideologia, ma di coscienza.
Scrisse nel suo diario:
“Il compito più difficile non è costruire fabbriche, ma costruire uomini.”
La Baia dei Porci

La notte del 17 aprile 1961, l’isola tremò di nuovo.
Una forza di esuli cubani, addestrati e finanziati dalla CIA, sbarcò nella Baia dei Porci per tentare di rovesciare il governo rivoluzionario.
Era la prova decisiva.
Cuba contro il mondo.
Ernesto era al comando di una delle unità che difendevano la capitale.
Dormiva in ufficio, con la radio accesa e il fucile vicino alla scrivania.
Quando arrivò la notizia dello sbarco, uscì in strada, ancora in divisa, e disse ai soldati:
“Non è una guerra tra eserciti. È una guerra tra passato e futuro.”

In meno di settantadue ore, gli invasori furono respinti.
La sconfitta americana fece il giro del mondo.
Nelle piazze di L’Avana si gridava “¡Fidel, Che, y Revolución!”.
Ma nei suoi occhi non c’era trionfo.
C’era preoccupazione.
Sapeva che da quel momento l’isola non sarebbe più stata sola, ma nemmeno libera.
L’isola e il mondo
Dopo la Baia dei Porci, Cuba entrò definitivamente nel cuore della Guerra

Fredda.
Missili sovietici, spie americane, sospetti ovunque.
Il sogno latinoamericano rischiava di diventare un pedone sulla scacchiera delle superpotenze.
Ernesto cominciò a sentirsi prigioniero della vittoria.
Scrisse a un amico:
“La rivoluzione non è una sedia, è un cammino. Se ti siedi, muore.”
Viaggiò in Africa, in Asia, nei paesi del blocco sovietico.
Visitò fabbriche e università, parlò ai giovani, sempre con la stessa idea: la libertà non si esporta, si ispira.
Ma capiva che la politica lo stava spegnendo, che l’ufficio era diventato una nuova prigione.
Una notte, in silenzio, confidò a Fidel:
“Il nostro sogno rischia di diventare amministrazione.”
E Fidel, dopo un lungo silenzio, rispose:
“Forse è per questo che tu non puoi restare.”
L’addio silenzioso
Nel 1965, Guevara lasciò Cuba.
Scomparve senza proclami, senza addii pubblici.
Partì per l’Africa, poi per la Bolivia, dove la storia avrebbe chiuso il suo cerchio.
Ma questo, ancora, apparteneva al futuro.
Prima di partire, lasciò una lettera a Fidel, che sarebbe stata letta solo mesi dopo:
“Altri popoli reclamano il mio modesto sforzo.
So cosa mi aspetta: sacrificio, solitudine, forse la morte.
Ma non importa.
Finché ci saranno ingiustizie, ci sarà da lottare.”
Quella notte, dal porto dell’Avana, guardò il mare per l’ultima volta.
Il vento portava l’eco lontana delle stesse voci di dieci anni prima, quando era arrivato con il Granma.
Sorrise appena e disse piano:
“La rivoluzione respira solo finché cammina.”
Poi salì su una nave e sparì nell’ombra.
✍️ Il Sognatore Lento