
In una stanza modesta, tra fumo di sigarette e mappe spiegate, Fidel Castro e Ernesto “Che” Guevara parlano per ore del sogno di una Cuba libera.
Davanti a una tazza di caffè e una pistola sul tavolo, nasce una delle più grandi alleanze del Novecento: la rivoluzione come destino.
✍️ Il Sognatore Lento
Città del Messico, 1955.
Una stanza modesta, un tavolo, una lampadina tremolante, il fumo delle sigarette che si mescola all’odore del caffè.
Due uomini parlano da ore, piegati su una mappa di Cuba.
Uno è alto, con la barba folta e la voce profonda.
L’altro è magro, inquieto, con gli occhi febbrili e le mani che non stanno mai ferme.
Così cominciò la storia di Fidel Castro Ruz e Ernesto Guevara de la Serna, due destini che si incrociarono una sera come due scintille nella stessa polvere.
Il primo incontro
Fidel stava preparando il ritorno a Cuba dopo anni d’esilio, deciso a rovesciare

Sotto la pioggia dello sbarco del Granma, tra onde e proiettili, Ernesto “Che” Guevara rifiuta di lasciare la sua borsa di medicinali.
Ferito, la stringe al petto come simbolo della sua scelta: curare e combattere nello stesso respiro.
la dittatura di Batista.
Guevara, fuggito dal Guatemala dopo la caduta di Árbenz, cercava un nuovo orizzonte per il suo ideale di giustizia.
Si conobbero grazie ad amici comuni, in una casa dove si discuteva di libertà e rivoluzione come si parla di vita e di pane.
Parlarono per tutta la notte.
Guevara ascoltò il progetto di Fidel, poi disse solo:
“Dove si combatte contro l’ingiustizia, io sono a casa.”
Da quel momento non si separarono più.
Il medico e il leader
Erano diversi in tutto.
Fidel era politico, stratega, capace di visione e di comando.
Guevara era filosofo, idealista, medico: l’uomo dell’etica più che della tattica.
Ma insieme formavano un equilibrio raro.
Fidel vedeva nella mente argentina la disciplina morale che serviva alla sua rivoluzione; Guevara riconosceva in Fidel la forza pratica che poteva trasformare le idee in realtà.
Fidel ricordò anni dopo:
“Quando parlava, il Che non convinceva: infiammava.
Era come se il fuoco avesse trovato una voce.”
E Guevara, in una lettera, scrisse:
“In Fidel ho visto un uomo capace di credere non solo per sé, ma per un popolo intero.”
Dalla barca alla montagna
Il loro legame si forgiò sul Granma.
Durante lo sbarco del 1956, tra la pioggia e i proiettili, Guevara fu ferito.
Fidel gli ordinò di abbandonare la borsa dei medicinali e portare le munizioni.
Lui scelse di tenere entrambe.
Da allora Fidel lo chiamò “il più coraggioso dei miei uomini.”
Nella Sierra Maestra, i due condivisero la fame, il fango e la paura.
Fidel comandava con autorità, ma ascoltava sempre le opinioni del Che.
Ernesto, pur essendo straniero, conquistò il rispetto dei cubani con il suo rigore e la sua onestà.
Quando divenne comandante, Fidel disse davanti a tutti:
“Da oggi, questo uomo non è un ospite dell’isola: è la sua coscienza.”
Il potere e la coscienza
Dopo la vittoria del 1959, Fidel e Guevara governarono fianco a fianco.

Seduto a una scrivania semplice, Ernesto “Che” Guevara scrive la sua lettera d’addio a Fidel Castro.
La lampada illumina l’inchiostro, il berretto riposa accanto al foglio, e nell’aria c’è il silenzio di chi parte sapendo di non tornare.
Il primo costruiva lo Stato, il secondo tentava di costruire l’uomo nuovo.
Si completavano e si contrastavano allo stesso tempo:
Fidel era il politico, Guevara il moralista.
Fidel parlava alle masse, Guevara alla coscienza.
Fidel lo nominò presidente del Banco Nazionale e poi ministro dell’Industria.
Ma l’argentino non amava gli uffici né le cerimonie.
Scrisse una volta:
“Fidel costruisce la rivoluzione. Io cerco ancora il motivo per cui deve esistere.”
Tra loro nacque una fraternità fatta di rispetto, affetto e differenze.
Si stimavano come pochi uomini al mondo, ma cominciarono a viaggiare su binari paralleli:
uno verso il potere, l’altro verso l’assoluto.
L’addio
Nel 1965, Guevara lasciò Cuba senza dire addio.
Partì in silenzio, come chi non vuole essere salutato perché sa di non tornare.
Fidel ricevette la sua lettera mesi dopo.
Era un messaggio d’amore politico e umano, scritto con la calma di un testamento:
“Altri popoli reclamano il mio modesto sforzo.
Se giungerà la mia ora sotto altri cieli, tu saprai che lo faccio per la stessa causa.
Ti lascio la mia fede, la mia fiducia, il mio affetto.”
Quando la lesse in pubblico, Fidel interruppe la lettura più volte per la commozione.
Disse poi:
“Nessuno come lui ha incarnato l’uomo che volevamo essere.”
La distanza e il mito
Dopo la morte del Che in Bolivia, nel 1967, Fidel pianse in silenzio.
Nei giorni successivi tenne un discorso che rimase nella storia di Cuba:
“Non è morto.
È ovunque si lotta per la libertà.
È vivo in ogni uomo che non si arrende.”
Da allora, Fidel divenne il custode del mito del suo amico.
Il suo volto adornava scuole, caserme e piazze.
Ma per Fidel, più che un’icona, il Che restò un’assenza.
Un fratello mai dimenticato, ma anche uno specchio:
quello in cui la rivoluzione poteva guardarsi e chiedersi se era rimasta fedele a sé stessa.
Due uomini, un solo respiro
La loro unione fu come due correnti opposte dello stesso fiume.
Fidel era la permanenza, Guevara il movimento.
Il primo cercava la vittoria, il secondo la purezza.
Insieme crearono un sogno, e separandosi lo resero eterno.
Ancora oggi, nei caffè dell’Avana, i vecchi dicono che quando il vento soffia dal mare, si sente il loro dialogo sospeso tra le onde:
una voce profonda che comanda, e un’altra, più lieve, che risponde.
E in quell’eco lontano, la rivoluzione respira ancora.
✍️ Il Sognatore Lento