
Ovvero come l’Italia riesce a trasformare ogni protesta in un fine settimana allungato
C’è una legge non scritta, ma perfettamente rispettata, nel calendario italiano: se un giorno di sciopero può cadere di venerdì, cadrà di venerdì.
È il misterioso incrocio tra la meteorologia del malcontento e la geografia del relax.
Un equilibrio sottile tra la rabbia sociale e la prenotazione in agriturismo.
12 dicembre, tanto per cambiare, è venerdì.
E guarda caso — c’è sciopero.
I notiziari si accendono, i treni si spengono, i bus spariscono, e i pendolari diventano filosofi.
Uno sbuffa, un altro ride, un terzo si chiede se non sarebbe stato meglio restare a letto.
Nel frattempo, i sindacati annunciano con tono solenne che la “mobilitazione generale” è una risposta necessaria alle politiche del governo.
E tutti, o quasi, sanno già come andrà a finire: lunedì si torna al lavoro, con la stessa faccia di chi ha appena vinto una gita gratis.
Non c’è ironia più dolce, e più amara, di quella che accompagna gli scioperi italiani.
Da una parte, ci sono le ragioni vere: stipendi che non crescono, contratti fermi, precarietà, tagli.
Dall’altra, c’è la coreografia: i cortei al rallentatore, le bandiere che sventolano solo se c’è vento, i megafoni che gracchiano slogan di trent’anni fa.
E nel mezzo, un Paese intero che osserva la scena con un misto di empatia e rassegnazione.
Perché diciamolo: in Italia, lo sciopero non è solo un diritto. È un rito.
Una liturgia laica, con i suoi tempi e i suoi simboli.
Ci sono i sacerdoti della protesta, che parlano dal palco e promettono nuove battaglie;
ci sono i fedeli stanchi, che ascoltano distratti con un panino in mano;
e ci sono gli eretici — quelli che, pur credendo nella causa, non ce la fanno più a vedere il calendario dei disservizi che coincide con quello dei ponti festivi.
È una tradizione tanto consolidata che persino le famiglie la tengono in conto.
“Questo weekend partiamo?”
“Dipende: c’è sciopero dei treni o dei benzinai?”
La risposta, in ogni caso, è sempre sì.
Perché se non c’è uno sciopero, c’è uno “stato di agitazione permanente”, e se non basta, arriva un’assemblea sindacale “casualmente” convocata alle 14 di un venerdì qualunque.
Una certezza: l’Italia è il Paese dove il venerdì non è più l’anticamera del sabato, ma la zona grigia del disservizio annunciato.
Eppure, sarebbe ingiusto liquidare tutto con sarcasmo.
Dietro ogni sciopero ci sono persone vere, stanche, preoccupate.
C’è chi difende un contratto scaduto, chi teme di perdere il posto, chi non vuole essere trattato come un numero.
Il problema non è lo sciopero in sé.
È la sua trasformazione in consuetudine, in gesto automatico, in formula svuotata di senso.
Quando la protesta diventa routine, non cambia più nulla: diventa il sottofondo del traffico, un rumore di fondo che nessuno ascolta più.
Un tempo lo sciopero spaventava i governi, scuoteva i palazzi, mobilitava opinioni.
Oggi, nella maggior parte dei casi, viene accolto come una notizia stagionale.
“Domani sciopero generale”, dice il telegiornale, con la stessa voce di chi annuncia la pioggia.
E come per la pioggia, la reazione è sempre la stessa: chi può, si organizza; chi non può, si bagna.
Il potere, intanto, resta al riparo.
La verità è che lo sciopero del venerdì è diventato un simbolo perfetto dell’Italia contemporanea: una protesta a metà, un impegno sospeso tra convinzione e convenienza.
Una forma di resistenza senza rivoluzione, un grido che si perde nel rumore di chi parte per il weekend.
Si protesta, ma con prudenza. Si urla, ma con la valigia pronta.
E così la rabbia diventa turismo, la delusione diventa pausa pranzo, e la solidarietà si misura in chilometri di coda sull’autostrada.
Nel frattempo, il cittadino comune fa i conti con l’ennesima giornata complicata.
Scopre che il suo treno è stato soppresso, che il suo volo è slittato, che la sua prenotazione è saltata.
Si arrabbia per qualche minuto, poi sospira e ripete la frase rituale:
“Eh, tanto non cambia mai niente.”
E forse è proprio questa rassegnazione, più dello sciopero stesso, la vera emergenza nazionale.
Perché se la protesta non produce cambiamento, e la rassegnazione diventa abitudine, allora il Paese resta fermo.
Fermo come un treno in stazione il 12 dicembre.
E intanto i politici sorridono.
Qualcuno twitta parole di solidarietà, qualcun altro ironizza sul “venerdì del disagio”.
Il governo conta i numeri dell’adesione, l’opposizione li moltiplica, i talk show organizzano il dibattito.
Si parla per ore, ma nessuno cammina.
Lo sciopero, come tutto il resto, finisce nel flusso dell’informazione istantanea: si accende al mattino e scompare la sera, rimpiazzato dall’ultima polemica utile.
Forse dovremmo ripensarlo, questo diritto antico e nobile.
Restituirgli un senso, una direzione, una coerenza.
Uno sciopero che non sia solo astensione, ma proposta; non solo protesta, ma visione.
Uno sciopero che non scelga i venerdì comodi, ma i lunedì scomodi.
Che non punti a bloccare, ma a costruire.
Che non sia solo il riflesso della rabbia, ma il segnale della speranza.
Perché il vero sciopero, oggi, sarebbe fermare la rassegnazione.
Rifiutarsi di credere che tutto sia immutabile, che la storia sia già scritta, che la politica sia solo spettacolo.
Sarebbe smettere di fare finta che la colpa sia sempre di qualcun altro, e cominciare a pretendere, da noi stessi e da chi ci governa, un senso nuovo di responsabilità.
Sarebbe tornare a credere che le cose possono cambiare anche senza un ponte lungo di mezzo.
12 dicembre, venerdì, sciopero generale.
Qualcuno sorride, qualcuno sbuffa, qualcuno parte.
E intanto il Paese resta lì, come un pendolo stanco che oscilla tra indignazione e indifferenza.
Il lunedì tornerà, come sempre, con le stesse facce e gli stessi discorsi.
Ma chissà — magari, tra un cartello e una valigia, qualcuno avrà capito che la libertà non si misura in giorni di vacanza, ma nella capacità di scegliere quando e come dire davvero “basta”.
✍️ Il Sognatore Lento
Rubrica: Pensieri Scomposti
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