👞 Capitolo 18 – Lu Mastàr

Quando🐴 Quando il cuoio teneva insieme la vita

Fino agli anni Sessanta, a Montenerodomo, c’era un mestiere che oggi pochi ricordano ma che allora era indispensabile: quello di lu mastàr.
Non era un contadino né un fabbro, ma un artigiano silenzioso che lavorava il cuoio.
Costruiva e riparava i màsti — le bardature, le cinghie e le selle per gli asini e i muli — e spesso aggiustava anche scarpe, stivali e cinture.
Un uomo del fare, che con pochi attrezzi e molta pazienza teneva insieme il mondo contadino.

La sua bottega aveva un odore inconfondibile: un misto di pelle conciata, colla e fumo di legna.
Sulla porta, sempre socchiusa, pendevano corregge, lacci e finimenti in lavorazione.
Dentro, un tavolo segnato dal tempo, le forme di legno, gli aghi grossi come chiodi e una luce fioca che filtrava dalla finestra.
Lì, giorno dopo giorno, lu mastàr aggiustava, cuciva, tagliava, levigava.
Ogni gesto aveva un suono, ogni colpo di martello un ritmo familiare.

Per i contadini era una figura essenziale.
Senza di lui, i muli non potevano andare al bosco né portare i sacchi di grano dai campi.
Bastava una cinghia rotta per fermare un’intera giornata di lavoro.
E allora si correva da lu mastàr, che con la calma dell’esperienza trovava una soluzione a tutto.
In bottega non si parlava molto: poche parole, ma tanto rispetto.
Il pagamento, spesso, non era in denaro, ma in natura — un po’ di farina, un pezzo di lardo, un bicchiere di vino.

Molti mastàri erano anche calzolai, e nei lunghi inverni riparavano le scarpe consumate dei bambini e degli uomini che tornavano dai campi.
Ma non solo: spesso andavano nelle case di campagna, e vi restavano per più giorni consecutivi, a fare scarpe nuove per l’intera famiglia e per il vicinato.
Si sistemavano in una stanza vicino al focolare, con la loro cassetta di attrezzi, il cuoio arrotolato e le forme di legno.
Lavoravano fino a tardi, tra chiacchiere e odore di colla, mentre i bambini osservavano incantati i movimenti lenti e precisi delle loro mani.
Quando ripartivano, lasciavano dietro di sé un profumo di pelle nuova e la gratitudine di chi sapeva che, per tutto l’inverno, avrebbe camminato all’asciutto.

Quando, negli anni Sessanta, arrivarono i primi trattori, i camion e le scarpe industriali, lu mastàr cominciò lentamente a scomparire.
Il suo mestiere non era più richiesto, e le botteghe iniziarono a chiudere una dopo l’altra.
Ma chi ha vissuto quegli anni ricorda ancora la sua figura curva sul banco, il suono regolare del martello e quell’odore di cuoio che sembrava raccontare il paese stesso.

Oggi del mastàr restano forse pochi attrezzi conservati in qualche cantina, e la memoria di un’arte che univa utilità e bellezza, mestiere e pazienza.
Era un uomo che, con ago e filo, teneva insieme la vita di tutti.


🕊️ Morale per le giovani generazioni

Il mestiere de lu mastàr ci insegna che nessun lavoro è piccolo se serve alla comunità.
Dietro ogni oggetto fatto a mano c’erano tempo, cura e dignità: valori che oggi rischiamo di dimenticare.
Quei mestieri, che profumavano di cuoio e di fatica, sono le radici della nostra identità.
Sta a noi, figli e nipoti di quella generazione, raccontarli e non lasciarli scomparire nel silenzio.
Perché anche un pezzo di pelle cucito bene può tenere insieme la memoria di un paese.

✒️ Il Sognatore Lento
Rubrica Memorie di Montenerodomo