
✍️ di Il Sognatore Lento
C’è chi sogna la settimana corta, e chi la realizza a modo suo.
Maurizio Landini, segretario della CGIL, sembra aver trovato la formula perfetta: proclamare scioperi strategici che, per una coincidenza che neppure la cabala saprebbe spiegare, cadono sempre vicino al weekend.
Giovedì o lunedì, non cambia molto: il risultato è un’Italia paralizzata a metà, ma con un sorprendente vantaggio turistico.
Altro che “lotta di classe”: qui siamo alla “lotta per il ponte”.
Autostrade piene, treni fermi, code ai caselli e code nei bar. Il lavoratore medio, quello che non può scioperare perché deve consegnare, servire, assistere o semplicemente arrivare a fine mese, si ritrova nel mezzo del caos. Mentre i portavoce della protesta spiegano ai microfoni che “lo sciopero è un diritto sacrosanto”.
Vero. Ma anche la pazienza del Paese lo è, o almeno lo era.
Il problema non è lo sciopero in sé, ma la sua trasformazione in abitudine.
Da strumento eccezionale diventa calendario fisso, come il cambio gomme o il Black Friday.
Un tempo lo sciopero aveva la forza del gesto simbolico, del rischio condiviso, del silenzio rumoroso che faceva tremare i palazzi del potere.
Oggi, spesso, sembra più un’occasione per farsi un weekend lungo e per scattare la foto “in lotta” con la moka accesa sul tavolo della cucina.
È curioso: i sindacati nati per difendere i lavoratori finiscono, talvolta, per complicare la vita proprio a loro.
Chi viaggia per lavoro si trova bloccato, chi serve nei ristoranti deve coprire doppi turni, chi lavora in ospedale fa straordinari perché i trasporti sono fermi.
Insomma, la rivoluzione del venerdì rischia di assomigliare più a un disagio di massa che a un progresso sociale.
Eppure, dietro la caricatura, resta un fondo di verità.
Landini non è un improvvisatore: interpreta un malessere reale.
I salari bassi, l’inflazione che morde, le promesse di riforma che restano tali.
Ma proprio per questo, forse, servirebbe una protesta più coraggiosa e meno prevedibile.
Non il solito copione da talk show, ma una riflessione collettiva su come ridare dignità al lavoro senza trasformarlo in un pretesto di calendario.
Il lavoro non è solo orario, ma senso.
E la dignità non si conquista gridando nei megafoni, ma cambiando le cose davvero.
Lo sciopero può e deve essere uno strumento di giustizia, non un intermezzo festivo.
Finché la politica si accontenterà di fare finta di ascoltare e i sindacati si limiteranno a organizzare “venerdì di lotta”, la distanza tra chi guida e chi lavora continuerà a crescere.
Forse è tempo di un nuovo linguaggio, più concreto e meno rituale.
Perché, a forza di cercare il weekend lungo, rischiamo di accorciare sempre di più la settimana della speranza.
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