🕮 Capitolo 20 -L’emigrazione da Montenerodomo

Le valigie di cartone e i sogni oltre l’oceano (1890–1950)

Ci sono partenze che non si dimenticano.
Partenze fatte di valigie di cartone, mani che si stringono per l’ultima volta e voci che si perdono tra le valli.
L’emigrazione da Montenerodomo non fu diversa da quella di tanti borghi d’Italia, ma dentro quelle partenze c’era un dolore più grande, una fede più testarda e una speranza più viva: quella di poter tornare un giorno, o almeno di mandare notizie, soldi, un segno di sé.

Alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, la miseria costrinse molte famiglie a lasciare la propria terra.
Le campagne non bastavano più a sfamare tutti, e il sogno di un lavoro stabile chiamava da oltreoceano.
Molti monteneresi arrivarono fino a Napoli, porto di partenze e di sogni.
Lì, tra casse e sirene, si imbarcavano verso l’America, l’Argentina o l’Australia,

New York: Little Italy nel 1900 

terre lontane dove la speranza aveva il sapore del mare.

Le navi erano affollate, le stive soffocanti.
Le testimonianze parlano di viaggi interminabili, di donne che pregavano e di bambini che piangevano.
Eppure, in mezzo alla paura, c’era sempre una scintilla di fiducia.
In una lettera di un emigrante partito da Napoli si leggeva:

“Siamo partiti come bestie, stipati nel ventre della nave.
C’erano donne che piangevano, uomini che pregavano, bambini che tossivano.
L’odore era insopportabile, ma nel cuore avevamo la speranza di una vita nuova.”

Immigrazione: quando quelli da aiutare a casa loro eravamo noi

Era l’emigrazione dei pionieri, quella dei padri che lasciavano tutto per inseguire un futuro migliore.
Ma poi arrivò la Prima guerra mondiale, e tutto si fermò: le navi, i sogni, persino le lettere.
Per anni, l’Italia si piegò sotto il peso del dolore e della fame.
Solo pochi riuscirono a ripartire, spesso per lavori stagionali o spostamenti interni.


⚙️ Il periodo fascista

Durante il ventennio fascista, le partenze furono scoraggiate e rigidamente controllate.
Il regime considerava l’emigrazione una ferita all’orgoglio nazionale.
Mussolini parlava di “fuga di braccia che impoverisce la Patria”, e così impose vincoli severi: il passaporto diventò un privilegio, non un diritto.

Molti cercarono comunque una via d’uscita.
Alcuni emigrarono clandestinamente o stagionalmente, lavorando nei campi o nei cantieri del Nord Italia, altri oltre confine, soprattutto in Francia.
C’era anche chi accettava la chiamata alle colonie africane, attratto da promesse di terra e lavoro che spesso si rivelavano inganni amari.

Poi venne la Seconda guerra mondiale, e di nuovo il silenzio: il dolore, la distruzione, la fame.
Le famiglie si dispersero, le case furono abbandonate, i sogni sospesi.


🌍 La nuova emigrazione europea

Quando le armi tacquero e l’Italia cominciò a ricostruire, anche l’emigrazione tornò a respirare — ma con nuove direzioni e nuovi destini.
Non più verso l’America, ma verso il Nord Europa, dove la ricostruzione chiedeva braccia e coraggio.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, i treni diretti verso la Svizzera, la Francia, la Germania e il Belgio si riempirono di uomini con le mani forti e gli occhi pieni di nostalgia.
Non erano più contadini in cerca di terra, ma operai, muratori, minatori.
Partivano per costruire strade, case, gallerie, ponti: un’Europa nuova che, senza saperlo, portava anche un po’ di Abruzzo nel cemento e nel ferro delle sue città.

Le prime rimesse cominciarono ad arrivare: piccole somme che facevano la differenza.
Con quei soldi si compravano le scarpe ai bambini, si riparavano i tetti, si mandavano i figli a scuola.
E, qualche volta, si costruivano le cosiddette “case degli americani”, solide, grandi, con una scala interna e le persiane verdi: simbolo di riscatto e di sacrificio.

L’emigrazione non fu solo un fatto economico: fu una storia collettiva di dolore e di coraggio, un capitolo scritto con le mani callose di chi non si è arreso alla miseria.
Ogni partenza era un addio, ma anche un giuramento: tornare, un giorno, con qualcosa da raccontare.

“Poi arrivò il Belgio, e con esso la polvere del carbone.
Cominciava una nuova emigrazione: non più verso il sole, ma verso il buio della terra.”