C’era una volta il vino novello

C’era un tempo, sì, un tempo in cui novembre portava con sé un sapore unico,

che sapeva di attesa e di tradizione. Il Novello non era solo un vino, era un rito che veniva celebrato con la stessa sacralità delle stagioni che si alternavano. Un evento che segnava il passaggio dall’autunno all’inverno, con il primo fresco che baciava la pelle e le prime candele accese nelle case. Non era solo un bicchiere da sollevare, ma un’occasione per fermarsi e godere del calore che solo il vino giovane poteva dare. Era il momento in cui l’aria si faceva più densa, più pregna di qualcosa di segreto, come se il Novello fosse capace di racchiudere in sé l’anima del paese, il profumo di mosto che saliva dai vigneti, la dolcezza delle castagne arrostite e la fragranza di legno che proveniva dai camini accesi. Il 14 novembre, o per i più temerari, il 6, erano i giorni del Novello, e nessuno osava sfidare la sua inviolata data. Un rito che, pur nella sua semplicità, raccontava tutto un mondo, uno spicchio di Italia che solo in quel preciso momento riusciva a sentirsi veramente vivo.

Negli anni Ottanta e Novanta il Novello era un piccolo spettacolo nazionale. Un fenomeno vero, quasi una febbre gentile che attraversava l’Italia dal

mattino alla sera. Le cantine si moltiplicavano come i sogni nei paesi di provincia, e le bottiglie uscivano dagli stabilimenti come fossero biglietti per una festa collettiva. Ovunque comparivano manifesti colorati, inviti alle degustazioni, appuntamenti nelle città per le degustazioni del Vino Novello: sembrava di vivere in un’Italia che si scopriva moderna, leggera, con un tocco di spensieratezza che oggi fa quasi tenerezza.

C’erano i giornalisti a fotografare i primi calici, i quotidiani che dedicavano pagine intere al “vino nuovo”, e in testa alla parata la Toscana e il Veneto, che marciavano con orgoglio, seguite da un Paese intero che non vedeva l’ora di sentirsi un po’ francese, un po’ europeo, un po’ dans le vent. Il Novello era l’idea di un’Italia che voleva correre, rinnovarsi, sorridere senza pensare troppo: un Beaujolais nouveau tutto suo, con i colori del nostro autunno.

Poi, come succede alle cose troppo amate, la magia ha cominciato a sbiadire. La festa, ripetuta ogni anno, aveva perso l’incanto della prima volta. E soprattutto, non sempre la qualità riusciva a correre alla stessa velocità dell’entusiasmo. La macerazione carbonica — quel metodo quasi poetico, capace di trasformare gli acini in un soffio di frutti rossi — restava troppo spesso un proposito a metà. Bastava che il 40% delle uve la facesse; il resto poteva essere vinificato come un rosso qualsiasi.

E così il Novello, che negli anni d’oro camminava con passo sicuro, ha iniziato a inciampare. Alcuni produttori lo realizzavano con cura, come fosse un figlio unico. Altri lo preparavano di fretta, inseguendo un calendario più che un’idea. Il risultato era un vino senza identità certa: una bottiglia che a volte sapeva emozionare, altre volte lasciava un retrogusto di delusione. Insomma, un vino

che non sempre riusciva a riconoscersi nemmeno allo specchio.

Arriva il vino novello, leggero e fruttato, una promessa di freschezza che invade i bicchieri e annuncia l’autunno. Ma, purtroppo, la qualità è un tema che continua a sollevare discussioni. Mentre in Francia, invece, sono rimasti fedeli all’idea originaria del Beaujolais nouveau — un solo vitigno, il Gamay, un solo nome, e un solo giorno per celebrarlo — noi, come spesso accade, abbiamo preferito la strada della creatività, un po’ più labile, ma affascinante. La nostra versione del Novello è diventata un mosaico di centinaia di vitigni, mille etichette, e mille storie diverse. Un’infinità di possibilità che, con il tempo, ha però creato più confusione che comprensione. Il pubblico, che all’inizio accoglieva con entusiasmo ogni nuova etichetta, ha iniziato a perdere la bussola: cosa aspettarsi da un vino che cambia volto ogni anno?

E mentre il Novello perdeva la sua coerenza, il consumatore cambiava, diventando più attento, più informato, più consapevole. Il desiderio di storie vere, di autenticità, ha preso il sopravvento. Si beve meno, ma si beve meglio. Il vino non è più solo una bevanda da accompagnare a un pasto, ma un racconto, una storia che parla di un luogo, di una vigna, di una mano che l’ha coltivata e prodotta. Oggi non basta più un’etichetta stagionale a convincere il consumatore: si cerca qualcosa di più profondo, qualcosa che abbia una vera identità. Il vino che non dice chi è, da dove viene, e cosa rappresenta, fatica a trovare posto sulla tavola. Il denaro, ormai, si spende con prudenza, e chi acquista lo fa con l’intento di investire in un’esperienza sensoriale autentica, che vada oltre il semplice atto di bere.

Il Novello, purtroppo, non ha retto a questo passaggio. Nacque come il vino dell’allegria, della semplicità, il compagno perfetto per chi voleva brindare al ritorno dell’autunno, senza troppi pensieri. Ma con il tempo, quella leggerezza che lo caratterizzava è diventata la sua gabbia. Quando il mercato ha iniziato a chiedere un vino che avesse una sua autenticità, una storia da raccontare, lui non ha saputo come rispondere. Il cambiamento si è fatto sentire nei numeri, che parlano chiaro: milioni di bottiglie vendute negli anni d’oro, ma oggi, a stento, si arriva a poco più di 1-2 milioni, e la discesa non accenna a fermarsi. Molte cantine hanno scelto di abbandonarlo, altre lo producono solo per abitudine, per mantenere vivo un filo di tradizione che resiste nei piccoli paesi, dove ancora novembre sa di mosto e di legna che scoppietta nel camino.

Eppure, nonostante il calo, il Novello conserva un fascino discreto, che non si lascia annullare dal tempo. È il vino che non pretende di essere un grande rosso, ma che ti guarda con un sorriso simpatico, come a dirti: “Non sono l’ottavo miracolo del mondo, ma sono il primo a raccontarti la vendemmia. Sono io, semplice e fruttato, a darti il benvenuto nella stagione che rinasce ogni anno”. Un vino che ha il suo posto, non nelle vetrine dei grandi collezionisti, ma nelle osterie di paese, dove le risate e i ricordi si intrecciano con il profumo del vino che si stappa, senza fretta, senza pretese.

Un brindisi all’autunno che ritorna

In un mondo dove le etichette sono spesso pesanti, i vini muscolari e il concetto di “potenza” è sinonimo di qualità, la leggerezza del Novello potrebbe, chissà, tornare di moda. Se solo qualcuno avesse il coraggio di riportarlo alla sua essenza, di rifarlo come una volta: con uve selezionate, fermentazioni lente e pazienti, e una macerazione carbonica genuina, non una facciata. In fondo, il Novello nasce per essere un vino di autenticità, di freschezza e di immediatezza.

Intanto, novembre ritorna. I boschi si svuotano dei colori caldi dell’autunno, le castagne si abbrustoliscono, e la sera, sempre più presto, avvolge il paese nel suo abbraccio. In certe locande di paese, tra il crepitio dei camini, si stappa ancora un rosso giovane che non ha bisogno di etichette o nomi illustri. Forse non porta nemmeno la scritta “Novello”, ma porta con sé lo stesso spirito di un tempo: un vino semplice, diretto, da sorseggiare senza fretta, con chi sa che ogni momento ha un valore in sé.

E così, il Novello diventa qualcosa di diverso. Non è più il vino da calendario, ma un simbolo di ciò che eravamo, di un’Italia che sa ancora fermarsi per celebrare la bellezza delle piccole cose. Un brindisi all’autunno, che ritorna ogni anno con il suo profumo inconfondibile di legna che scoppietta nel fuoco, di uva che riposa nei bicchieri, di tradizioni che continuano a vivere, semplici e vere.

Il Sognatore lento


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