
di Il Sognatore Lento
La questione dell’estrazione del gas nell’area di Bomba non è solo un tema tecnico, né un semplice dibattito amministrativo.
È un nodo che riguarda identità, sicurezza e memoria del territorio.
Una storia che sembrava chiusa e che invece, oggi, torna a presentarsi con il rischio concreto che l’iter autorizzativo possa condurre all’avvio delle attività estrattive.
In questa vicenda, purtroppo, emerge un dato evidente:
dove la politica ha fallito, resta alla popolazione intervenire.
Perché i territori fragili non possono permettersi leggerezze.
Un territorio che ha già dato la sua risposta
Il progetto di estrazione non è una novità.
Nacque oltre vent’anni fa con Forest Oil e fu respinto dopo anni di valutazioni ambientali, pareri tecnici negativi e una mobilitazione popolare straordinaria.
Il motivo era semplice: quell’area, dal punto di vista geologico e idrogeologico, non offre le garanzie minime per un impianto di quel tipo.
Oggi il testimone è passato a un’altra società, la LnEnergy, che sostiene di aver ottenuto i via libera necessari dal Ministero dell’Ambiente per avviare il progetto.
La Regione Abruzzo invece ribadisce la propria contrarietà.
Le comunità locali sono in allarme.
In mezzo, come sempre, resta il territorio: quello vero, fatto di faglie, falde acquifere, pendii e persone.
Perché questa storia ci riguarda tutti
Il lago di Bomba, con i suoi paesi vicini, non è solo un luogo suggestivo.
È una delle zone più delicate del nostro Abruzzo.
Un’opera industriale invasiva, vicina a una riserva d’acqua e a un’area soggetta a frane e movimenti del terreno, rappresenta un rischio che nessuna garanzia tecnica può considerare azzerato.
Per questo il dibattito non è “pro” o “contro” lo sviluppo.
Il punto è un altro:
quale sviluppo vogliamo?
E soprattutto:
chi si assume la responsabilità se qualcosa va storto?
Testimonianza: ciò che ho imparato in una valle che ha già conosciuto la tragedia
Per anni ho lavorato durante la stagione invernale a Pampeago, in Val di Fiemme. Ultima stagione invernale 1984/85. La tragedia avvenne il 19 luglio 1985
Da Tesero si sale verso Stava, poi più su, fino alle Alpi di Pampeago.
Quella strada l’ho fatta centinaia di volte, tra neve, boschi, silenzi e luci che brillano nelle sere d’inverno.
E proprio lì, in quella valle splendida, ho imparato una cosa che non si scorda più:
la tragedia della Val di Stava del 1985 non è un racconto da libro di scuola.
È una ferita che vive ancora nei paesi, nelle famiglie, nelle persone che ho conosciuto lavorando lì.
Una valle che sembrava sicura, e invece fragile.
Un impianto considerato “gestibile”, e invece costruito malamente.
Un rischio sottovalutato, e invece devastante.
Quando conosci da vicino un luogo dove qualcosa è crollato, impari una lezione che non si cancella:
le tragedie non nascono dal destino, ma da scelte sbagliate.
Per questo, oggi, davanti alla questione del gas a Bomba, non riesco a essere neutro.
Non posso.
So cosa succede quando la tecnica ignora il territorio.
So cosa significa quando le comunità non vengono ascoltate.
A cosa serve ricordare
Ricordare non significa opporsi a tutto.
Significa scegliere con responsabilità.
Significa sapere che un errore, in certi territori, non lo pagano i ministeri ma le persone.
Chi vive lì, chi coltiva, chi lavora, chi cresce i figli.
E allora sì:
speriamo che la storia non si ripeta.
Ma sperarlo non basta.
Serve partecipazione, informazione, vigilanza.
Serve che chi abita un luogo torni a essere protagonista delle scelte che lo riguardano.
Perché se la politica sbaglia strada,
tocca alla popolazione far sentire di nuovo la propria voce.
Il Sognatore lento
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