
Un racconto di paese, di fiducia e di un tempo che sapeva aprirsi da solo

C’era un tempo, a Montenerodomo, in cui la chiave non era un oggetto da
nascondere. Era un simbolo di fiducia, lasciato nella toppa, in bella vista, come una mano tesa. Fino agli anni Settanta, nelle porte delle case non trovavi chiavistelli di sicurezza, serrature elettroniche o videocitofoni. Trovavi semplicemente una chiave — infilata, pronta a girarsi, quasi un invito silenzioso a entrare.
Non serviva bussare. Bastava aprire e dire con voce franca:
— Permesso?
E da dentro, una voce rispondeva:
— Avanti, chi è?
Non c’era sospetto, non c’era paura. C’era solo la consuetudine di un paese dove tutti si conoscevano, dove il confine tra “casa mia” e “casa tua” era fatto più di rispetto che di serrature.
Le porte di legno avevano il colore del tempo, con i segni dell’inverno e il profumo della resina. Alcune si aprivano direttamente sulla cucina, altre su un piccolo ingresso dove un lume restava acceso anche di giorno. Entrare non significava invadere: significava appartenere.
In quei giorni, Montenerodomo era ancora un paese vivo, popolato di voci e di passi. Le donne si chiamavano da una finestra all’altra, gli uomini rientravano

con la giacca sulle spalle e la cesta del campo sotto braccio. Le chiavi non servivano per difendersi, ma per ritornare. Ogni porta era un approdo, ogni casa una parte di una comunità più grande.
Se arrivava un parente, un vicino o un amico del marito, non c’era bisogno di annunciarsi. Si entrava, si salutava, e magari ci si sedeva un momento vicino al camino, aspettando che qualcuno versasse un bicchiere di vino o una tazzina di caffè.
A volte la chiave restava nella porta anche quando dentro non c’era nessuno. Era un segno: “Sono andati all’orto, torno tra poco.” Nessuno avrebbe mai pensato di approfittarne. Era un gesto di fiducia collettiva, un modo per dire che, in quel piccolo mondo, la paura non aveva ancora messo radici.
I bambini correvano liberi tra i vicoli, saltando da una casa all’altra come se tutto il paese fosse un’unica grande famiglia. Se avevi fame, sapevi dove bussare — anzi, dove entrare. Ogni cucina aveva un profumo diverso: chi friggeva frittelle, chi impastava il pane, chi bolliva le patate per la cena.
La chiave nella porta era anche il segno di una memoria condivisa: il paese non era solo un luogo, ma un organismo vivo, dove ogni persona si sentiva parte di un tutto. Le chiavi, come le parole, si passavano di mano in mano. Non servivano a chiudere, ma a custodire.
Poi vennero gli anni del cambiamento. Gli anni in cui i figli partirono per la Svizzera, la Germania, il Belgio, l’Australia. Le case cominciarono a restare vuote più spesso, e la chiave nella porta divenne un rischio. Le prime serrature a doppia mandata apparvero come segni di un’epoca nuova: la fiducia, lentamente, lasciava spazio alla prudenza.
Ma chi è nato allora, e chi è cresciuto ascoltando i racconti dei vecchi, sa che quella chiave nella porta non era solo un’abitudine. Era una filosofia. Un modo di essere paese.
Era il segno di un mondo dove la parola “vicino” significava davvero qualcuno accanto, non solo un nome sul citofono. Dove un “entra pure” valeva più di mille inviti formali, e il calore umano non aveva bisogno di appuntamenti.
Oggi, tornando a Montenerodomo, può capitare di passare davanti a una di quelle case antiche, con la porta ancora in legno grezzo e la toppa arrugginita. E allora, per un attimo, ti sembra di sentire ancora il suono di quella chiave che gira piano, e la voce di chi da dentro ti dice:
— Avanti, entra.
È un suono che non si dimentica, perché parla di ciò che abbiamo perduto: la semplicità della fiducia, il valore dell’apertura, la certezza che tra le persone, come tra le porte, bastava un piccolo gesto per sentirsi a casa.
Oggi la chiave non è più nella porta. È in tasca, in borsa, nascosta dietro codici e antifurti. Ma il ricordo di quella libertà resta. È un’eco che appartiene a chi ha vissuto l’epoca delle mani aperte e delle porte socchiuse.
Forse dovremmo imparare di nuovo a vivere così: con meno paura e più fiducia. Con le porte meno chiuse e i cuori un po’ più aperti.
Perché a Montenerodomo — come in ogni piccolo paese che resiste alla dimenticanza — la chiave nella porta era molto più di un oggetto: era un modo di stare al mondo.
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✍️ Racconto e memoria di paese
a cura de Il Sognatore Lento
📍 Montenerodomo, anni di libertà e fiducia condivisa