Elezioni Regionali: Tutti Vincitori, Nessun Rappresentato

«Urne aperte, ma vuote.
Quando la partecipazione manca, nessuna vittoria è reale.»

Quando l’affluenza crolla, la politica festeggia… ma il Paese resta vuoto

C’è un paradosso tutto italiano che torna puntuale ad ogni elezione regionale:
i partiti festeggiano, i leader si proclamano vincitori, i comunicati si sprecano… e l’affluenza precipita.

Quest’anno, ancora una volta, in tutte le regioni in cui si è votato meno della metà dei cittadini si è recata alle urne.
Non parliamo di un lieve calo, né di una disaffezione “normale”: parliamo del livello minimo di ossigeno per una democrazia rappresentativa. Una soglia che, se fosse un battito cardiaco, farebbe scattare il defibrillatore.

Eppure, la politica applaude.


Hanno vinto il voto, ma non il consenso

Con un’affluenza sotto il 50%, chi vince prende il controllo delle regioni, delle risorse e delle future scelte strategiche.
Ma con quale legittimazione?

Quando metà dei cittadini resta a casa, quella vittoria non rappresenta più la comunità, ma solo una parte sempre più ristretta e fedele.
Il risultato è tecnicamente valido — per carità — ma politicamente debole, umanamente fragile, civicamente inesistente.

La politica parla di “mandato popolare”, ma quello che arriva dalle urne è un sussurro, non una voce. È una firma stanca, non un contratto fra cittadini e istituzioni.

E loro festeggiano: pirotecnie verbali, comunicati entusiasti, sorrisi a 32 denti.
Il Titanic affonda, la banda continua a suonare.


Se meno della metà vota, la democrazia non tiene più

In qualunque Paese che prenda sul serio la partecipazione, un’affluenza così bassa accenderebbe un dibattito nazionale.
Da noi, no: si commenta il colore delle regioni, si disegnano mappe politiche come se fossero veri barometri sociali.

Ma se vota solo una minoranza, quelle mappe sono anatomie di fantasmi.

Una democrazia non diventa illegittima per legge, ma diventa vuota per abbandono.
E la responsabilità non è solo dei partiti — è di un sistema che da anni non parla più alle persone comuni, non ascolta i territori, non intercetta bisogni reali.

Quando in un quartiere, un comune o una regione votava il 90%, si chiamava “partecipazione”.
Quando vota il 45%, qualcuno dovrebbe almeno arrossire.


Un’elezione così, per me, non è valida

Non nel senso tecnico, ma in quello morale.
Una classe politica che governa con la metà dei voti della metà dei votanti — cioè una minoranza della minoranza — non può dirsi davvero rappresentativa.

Se il sistema fosse coerente con sé stesso, si dovrebbe avere il coraggio di:

  • commissariare temporaneamente
  • ripensare gli strumenti di partecipazione
  • introdurre soglie minime di affluenza
  • tornare nelle piazze, nei paesi, nelle periferie
  • parlare di vita reale, non di slogan

Una politica che si regge sull’astensione non è una politica: è un esercizio di potere.


Forza cittadini: la responsabilità è nostra

A questo punto, l’unica vera opposizione, l’unica maggioranza, l’unica forza rimasta siamo noi:
i cittadini.

Non possiamo delegare tutto e poi lamentarci del nulla.
Non possiamo accettare che la partecipazione diventi un optional.
Non possiamo lasciare che il cinismo sia la nuova normalità.

Se la politica non restituisce dignità al Paese, tocca a noi ridarla a noi stessi:
con la voce, con la presenza, con l’impegno quotidiano — anche piccolo, anche imperfetto.

Le elezioni non sono più un appuntamento: sono un termometro.
E oggi, il termometro segna febbre alta.

Spetta a noi decidere se guarire o continuare a far finta di star bene.

Il Sognatore lento


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