Storia romanzata dell’emigrazione… ma non troppo

Nel ventre della montagna
Airolo – Inverno 1947
La sveglia dello zio non suonava: batteva.
Una mano forte sulla spalla, alle quattro e mezza del mattino.
«È ora» disse.
Senza dolcezza, senza durezza.
Come dire: così va il mondo.
Antonio si alzò nel buio gelato della stanza.
La finestra era coperta da una patina di ghiaccio:
il suo fiato non bastava a disegnarci un cerchio.
Si vestì in fretta, con gli stessi abiti del viaggio.
Maglione rattoppato, giacca consumata, mani nude.
Lo zio lo osservò, poi gli porse un paio di guanti pesanti.
«Questi non sono un regalo» disse.
«Sono un investimento. Fa’ in modo che rendano.»
Uscirono.
La neve scricchiolava come vetro rotto sotto gli scarponi.
Il cielo era ancora nero, la valle addormentata.
Alla piccola stazione li attendevano altri uomini:
italiani, spagnoli, portoghesi, qualche ticinese.
Volti già induriti dal lavoro.
La gioventù, lì, non durava molto.
Lo zio accennò un saluto:
«Questo è mio nipote. È giovane… e ha fame.»
Fame di vita, di futuro, di possibilità.
L’unica fame che contava per essere assunti.
🚧 Il cantiere della galleria laterale
Un camion li portò fin dentro il cantiere.Il cantiere della galleria laterale

Un camion li portò fin dentro il cantiere.
Non era lo scavo del grande traforo — quello era stato fatto decenni prima —
ma uno dei tanti cunicoli laterali di manutenzione
che servivano a rinforzare il vecchio tunnel del Gottardo
e a deviare l’acqua che filtrava dalla montagna.
Airolo viveva di questo:
gallerie, ferrovie, lavori idroelettrici.
Tutto scavato e sostenuto da mani straniere.
Antonio osservò la montagna.
Non era un luogo: era un giudice.
«Qui si scava per tenere in piedi quello che c’è già» disse un uomo di Bari,
mentre si metteva l’elmetto graffiato.
«E senza di noi, sarebbe già crollato tutto.»
Dentro la galleria il buio era un animale:
respirava, graffiava, attendeva.
«Occhi aperti, schiena dritta» disse lo zio.
«Qui basta un attimo per non tornare più a vedere il cielo.»
Gli consegnarono un martello pneumatico.
Il peso lo tirò giù subito:
il lavoro ti piega ancora prima di iniziare.
Non era lo scavo del grande traforo — quello era stato fatto decenni prima —
ma uno dei tanti cunicoli laterali di manutenzione
che servivano a rinforzare il vecchio tunnel del Gottardo
e a deviare l’acqua che filtrava dalla montagna.
Airolo viveva di questo:
gallerie, ferrovie, lavori idroelettrici.
Tutto scavato e sostenuto da mani straniere.
Antonio osservò la montagna.
Non era un luogo: era un giudice.
«Qui si scava per tenere in piedi quello che c’è già» disse un uomo di Bari,
mentre si metteva l’elmetto graffiato.
«E senza di noi, sarebbe già crollato tutto.»
Dentro la galleria il buio era un animale:
respirava, graffiava, attendeva.
«Occhi aperti, schiena dritta» disse lo zio.
«Qui basta un attimo per non tornare più a vedere il cielo.»
Gli consegnarono un martello pneumatico.
Il peso lo tirò giù subito:
il lavoro ti piega ancora prima di iniziare.
🔨 Il primo colpo

Quando il macchinario si avviò,
il rumore fu un tuono rinchiuso nella pietra.
Vibrazioni, polvere, acqua fredda alle caviglie.
Antonio stringeva i denti.
Non doveva mollare.
Non poteva mollare.
«Respira piano» urlò lo zio sopra il frastuono.
«La montagna sente. E se ti sente tremare… ti prende.»
Il martello gli scuoteva le braccia,
la schiena gli bruciava,
il fiato gli si spezzava in gola.
Il caposquadra passò, lo guardò un attimo,
poi disse secco:
«Questo regge. Ha qualcosa da perdere.»
E ripartì.
Come se avesse già deciso il suo destino.
☕ La pausa che non basta
A metà mattinata un bidone di caffè bollente girò tra le mani rosse degli

uomini.
Niente tazze: si beveva così, dal beccuccio di latta.
Il barese si sedette accanto a lui.
«Sai perché veniamo qui, paisà?»
Antonio non rispose.
«Per poterci lamentare del lavoro davanti ai nostri figli, con un piatto pieno.
Meglio sudare qui che guardare la fame da casa.»
Un sorriso amaro.
Ma vero.
🌄 L’uscita alla luce
Quando uscì dalla galleria,
la luce bianca gli ferì gli occhi.

Il freddo sembrava più buono,
l’aria più larga.
Antonio guardò le sue mani:
rosse, gonfie, segnate.
Ma non avevano tremato.
«Hai tenuto duro» disse lo zio,
piantando un piede nella neve come un punto fermo.
Antonio annuì.
Il corpo tremava, ma la paura no.
🔥 La casa, il fuoco, la speranza
A casa il buio aveva già vinto il cielo.
«Metti gli abiti vicino alla stufa» disse lo zio.
Prese due ceppi e li sistemò nella stufa.
Un fiammifero, uno scricchiolio,
la fiamma prese vita, lenta ma decisa.
La stanza si riempì di calore.
Un calore che non era solo temperatura:
era respiro.
Lo zio scaldò la minestra, tagliò il pane.

I gesti ruvidi di chi non si lamenta,
ma vive.
Quando si sedettero a tavola,
lo zio guardò il fuoco e disse piano:
«Chissà se un giorno tua zia e i ragazzi potranno raggiungermi.»
Non era una domanda.
Non era un lamento.
Era una speranza che faceva rumore
anche nel silenzio.
Dopo cena aprì un cassetto
e posò una busta davanti ad Antonio.
«Quando avrai la tua prima paga,» disse,
«scrivi a casa. E manda quello che puoi.»
Era la regola.
La regola degli uomini che partono per restituire.
Antonio si toccò il taschino:
la fotografia era ancora lì.
Al suo posto.
Sul cuore.
Sotto la coperta ruvida,
il sonno arrivò lento ma vero.
Ogni muscolo doleva,
ma quella stanchezza aveva un sapore diverso:
quello di un futuro possibile.
Fuori la neve cadeva lieve.
Dentro, un pensiero solo:
Se oggi ho resistito, domani posso ricominciare.

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