
«Bevilacqua, notte del 16 gennaio 1916 — una raffica nemica colpisce il Vate in volo.»
In Il Vate e la sua terra
Il cielo, che gli aveva dato le ali,
ora gli preparava la sua prima grande ferita.
È una notte gelida sull’Isonzo.
Il vento punge come una lama sottile,
ma il biplano su cui D’Annunzio vola vibra di una forza nuova:
la sfida della ricognizione notturna.
Accanto a lui c’è il tenente Giannino Ancillotto,
compagno di audacia.
Il rombo del motore è l’unico suono nel buio.
«Stanotte — dice il poeta —
voliamo per guardare negli occhi l’ombra.»
La raffica
Improvvisamente,
un fascio luminoso rompe la notte.
Sono i riflettori austriaci: l’aereo è stato scoperto.
Poi il crepitare secco delle mitragliatrici.
Una raffica sale dal basso
come un urlo di metallo.
Uno, due colpi…
Il terzo è quello che conta.
Una scheggia penetra nella zona orbitale destra
e trafigge l’occhio del poeta.
Un lampo di dolore,
rosso e bianco come un’esplosione interna.
D’Annunzio si porta la mano al volto.
Sente il sangue caldo,
la vista si appanna,
la notte diventa una macchia rovente.
Ma non urla.
Non chiede di scendere.
Non vuole che nessuno pensi che il Vate possa cedere.
«Guido io!
Alla terra non torneremo come vinti!»
Stringe i denti.
Resiste.
Il biplano continua a volare,

tra le stelle e l’abisso.
L’atterraggio impossibile
Con l’occhio destro quasi cieco,
è l’occhio sinistro a guidarlo:
un occhio solo contro l’oscurità.
La pista di San Pelagio appare all’improvviso,
come una promessa che non osa essere creduta.
Ancillotto scende per primo.
I meccanici accorrono.
Il poeta resta immobile,
il viso segnato da un taglio profondo,
l’occhio offeso che pulsa come un cuore ferito.
«Non una parola alla mia famiglia» mormora.
E sviene tra le braccia dei compagni.
Il buio e la volontà
Lo ricoverano.
La diagnosi è grave:
ferita perforante al bulbo oculare destro.
Il rischio è la cecità completa.
Gli chiedono di riposare,
di fermarsi,
di lasciare che altri combattano al posto suo.
Ma lui non è nato per obbedire.
«Ciò che non posso vedere,
posso ancora immaginarlo.»
Passano i giorni.
Viene bendato.
Cammina a tentoni.
La luce è una fitta che lacera.
Eppure scrive.
Detta ai medici e agli aviatori parole che infiammano i cuori:
«La notte non è tenebra:
è un’altra forma di luce.»
Il dolore gli brucia il cranio,
ma lui ringrazia l’oscurità:
gli dà una percezione nuova,
una vista interiore.
La cecità parziale non spegne la sua ambizione —
la rende più feroce.
Il ritorno al cielo
Quando i medici gli dicono che non potrà volare per settimane,
risponde senza esitazione:
«Io volo.
Voi curatevi di chi deve restare a terra.»
E davvero lo fa.
Appena può, torna su un aereo.
L’Italia guarda a lui
come a un simbolo
che non si piega neanche quando la guerra gli ruba la metà degli occhi.
Perché D’Annunzio ha capito una verità
che nessun bombardamento potrà cancellare:
«La vista è nulla senza il desiderio della visione.»
La guerra non ha ancora svelato il suo peggio.

Gli anni a venire gli regaleranno
gesti ancora più audaci,
voli che sfideranno Vienna, il Piave, Fiume.
Il poeta è ferito.
Il poeta è stanco.
Il poeta ha paura.
Ma il poeta — soprattutto — continua.
Perché se l’Italia deve volare,
chi se non lui
può mostrarle la via verso il cielo?

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