Episodio 4 – La casa che aspetta

Vite invisibili

✍️ Il Sognatore Lento

Clara parcheggiò l’auto davanti al cancello della casa paterna e per qualche secondo rimase lì, con le mani sul volante, a guardare quel portone che conosceva da sempre.
L’aveva visto chiudersi alle sue spalle quando era poco più che una ragazza.
Aveva giurato a se stessa che non sarebbe mai tornata a vivere lì.
E invece eccola, anni dopo, con qualche ruga in più e un conto in banca che le permetteva, finalmente, di scegliere.

Dal cortile accanto spuntò Vincenzo, con la solita tuta da lavoro e il passo un po’ lento di chi ha imparato a convivere con il tempo.
La fissò per un istante, come per assicurarsi che fosse davvero lei, poi sorrise.

«Ben tornata, Clara» disse senza enfasi, come se l’avesse vista l’ultima volta il mese prima.

Si avvicinò al cancello, aprì, e tirò fuori da un mazzo una piccola chiave d’ottone.
La chiave di casa.

«Questa è sempre stata tua. Io e Rosa l’abbiamo solo tenuta al caldo.»

Clara la prese con cura, quasi temesse che si spezzasse tra le dita.
«Grazie, Vincenzo» riuscì a dire.

Non serviva altro.
In quella chiave c’erano dentro tutti gli anni lontani, i ritorni veloci per i funerali, i biglietti presi all’ultimo momento, le valigie rimaste in macchina perché non c’era tempo per fermarsi davvero.


La casa era in ordine.
Non c’era polvere sui mobili, non c’erano ragnatele negli angoli.
Il pavimento odorava di detersivo recente, e sul tavolo della cucina c’era un vaso con qualche fiore di campo ormai un po’ appassito.

«Rosa ci teneva a mettere qualcosa di vivo» spiegò Vincenzo, fermandosi sulla soglia. «Dice sempre che le case vuote si intristiscono.»

Clara fece qualche passo nelle stanze.
Ogni oggetto era al suo posto: le foto dei genitori, il quadro sopra il divano, il servizio buono esposto nella credenza.
Il passato era rimasto lì, educato e composto, ad aspettarla.

«Per stasera vieni da noi» aggiunse il cugino, quasi fosse la cosa più ovvia del mondo. «Qui dentro non hai niente da mangiare, per ora.»

Clara sollevò lo sguardo.
Sembrava una frase pratica, ma era anche molto di più: era un modo per dirle non sei sola.

«Va bene» rispose. «Grazie.»

Non aveva voglia di spiegare chi fosse diventata, cosa avesse fatto, perché fosse tornata.
Aveva passato anni a parlare, giustificare, raccontare.
Adesso voleva solo stare.


Quella sera conobbe finalmente Rosa.
Non si erano mai incontrate prima: quando Clara era andata via aveva diciotto anni, tutta una vita davanti e una rabbia silenziosa in tasca.
Rosa era arrivata dopo.

«Piacere, io sono Rosa» disse la donna porgendole la mano infarinata. «Ben tornata a casa.»

Sul tavolo c’era una pentola di pasta al sugo semplice e una frittata di patate.
Profumi chiari, puliti, senza esagerazioni.
Clara si sedette. Si sentiva stranamente a posto, in quella cucina che non era la sua ma le somigliava.

Si parlò del paese, delle famiglie che se n’erano andate, dei ragazzi che avevano preso l’aereo invece del pullman, delle case chiuse «che fanno tristezza solo a guardarle».
Rosa raccontava, Vincenzo aggiungeva qualche dettaglio, Clara ascoltava.

Ogni tanto sentiva lo sguardo del cugino su di lei, come a voler chiederle qualcosa senza avere il coraggio di farlo.

Alla fine fu lui a rompere il silenzio.
«Tu… tutti questi anni fuori…» iniziò, poi si fermò.
«Non sei mai tornata, se non…»

«Se non per i funerali» concluse Clara, guardando il bicchiere d’acqua.

Restarono qualche secondo sospesi.
Il passato si era seduto a tavola con loro, ma nessuno era obbligato a offrirgli da bere.

«La vita fa dei giri strani» disse lei piano. «A volte ti porta lontano da chi ami, e quando te ne accorgi ti sembra tardi per tornare.»

Era solo una parte della verità.
Il resto era suo, e voleva restasse tale.

Vincenzo annuì.
Avrebbe potuto chiedere: Che lavoro facevi? Con chi stavi? Perché non sei tornata mai, nemmeno a Natale?
Non lo fece.

Rosa cambiò discorso con naturalezza.
«Domani, se vuoi, ti accompagno in paese. Ti sei persa un bel po’ di novità.»

Clara le fu grata per quella delicatezza.
La famiglia, pensò, non è solo chi ti è rimasto nel sangue.
È chi sa quando fermare le domande.


La mattina seguente la casa era silenziosa, ma non muta.
Clara girò per le stanze con calma, aprì armadi, toccò lenzuola piegate da mani che non c’erano più.
Si fermò davanti alle fotografie dei genitori: loro giovani, il matrimonio, il battesimo di lei, una gita al mare.

«Non ce l’ho fatta a restare» sussurrò a quei volti. «Però adesso… ci provo a tornare.»

Andò in cucina e aprì la dispensa.
Qualche pacco di pasta, una scatola di biscotti vecchi, nient’altro di davvero utilizzabile.
Sorrise: Vincenzo aveva proprio ragione.

Una vita normale ricomincia dalle cose semplici: il pane, il latte, un po’ di frutta.
E da una spesa fatta a piedi, nel paese che ti guarda.


Lungo la strada sentiva gli sguardi curiosi dietro le tende.
Non era niente di cattivo, era la curiosità tipica dei luoghi piccoli.

«Ma da dove viene, dopo tutto questo tempo?»
«Ha fatto i soldi? È rimasta sola?»
«Chissà perché non si è più vista…»

Clara sapeva che se lo chiedevano.
Era umano.
Ma, per la prima volta nella vita, sentì che non le importava davvero.

Non doveva più dimostrare nulla a nessuno.
Non doveva spiegare come si era guadagnata ogni euro di quel conto in banca, né quante volte aveva dovuto difendere la propria dignità.
Questa parte della sua vita voleva viverla senza preoccuparsi di niente, o almeno ci avrebbe provato.


Il Minimarket “Da Farid” era proprio al posto della vecchia alimentari di Domenica.
Una piccola insegna verde e bianca, vetri puliti, scaffali in vista.

Entrò.
Il campanellino sulla porta trillò.

«Buongiorno!» la salutò Farid, con il suo sorriso aperto.
Aveva l’accento di chi è arrivato da lontano, ma il tono di chi ormai considera quel paese casa sua.

«È nuova?» chiese.

Clara esitò un istante.
«No… sono tornata» rispose. «È diverso.»

Farid annuì.
«Allora bentornata. Ogni ritorno è una buona notizia, qui.»

Quelle parole le fecero più bene di quanto volesse ammettere.

Prese pane, latte, frutta, un po’ di caffè.
Mentre metteva i prodotti nel sacchetto, guardò gli scaffali: c’era di tutto, dal tonno alle spezie straniere, dai biscotti industriali ai legumi secchi.

«Se ha bisogno, io porto anche la spesa a casa» disse Farid con semplicità. «Soprattutto per chi è solo.»

«Non sono sola» replicò Clara.
E si rese conto che, in quel momento, era vero.

Pagò, salutò, uscì con la busta in mano.
L’aria del paese le arrivò addosso piena di odori: pane, fumo dei camini, terra umida.

Per la prima volta da anni, non le sembrarono odori poveri.
Le sembrarono suoi.


Più tardi, verso il pomeriggio, prese il mazzo di chiavi, ne scelse una più piccola e sottile.
Quella del cimitero.

Andò a piedi lungo il viottolo che portava in alto.
Le tombe dei genitori erano vicine, con i fiori ormai secchi dell’ultima volta che qualcuno era passato.
Forse Vincenzo, forse Rosa.

Clara rimase in piedi qualche minuto, poi si sedette sul muretto basso che delimitava il vialetto.

«Non sono tornata quando avreste voluto» disse piano. «Non sono quella che vi immaginavate. Ma sono ancora vostra figlia.»

Restò lì in silenzio.
Non aveva bisogno di piangere.
Il dolore si era asciugato da tempo, ma il filo non si era mai spezzato.

Quando si alzò per andare via, si sentiva un po’ più leggera.


La sera, Vincenzo venne a bussare.

«Come va?»
«Sto imparando a fare la spesa» scherzò lei.

Si sedettero in cucina, ognuno con una tazza di tè.
Fu allora che lui azzardò di nuovo una domanda, ma senza insistere.

«Quindi… adesso resti?»

Clara guardò fuori dalla finestra.
Le luci del paese erano poche ma sembravano bastare.

«Sì» rispose. «Adesso resto. Voglio vivere questo pezzo di strada senza più correre.»

Non aggiunse altro.
Vincenzo annuì, come se avesse ricevuto la risposta più importante.

Quella notte, sul balcone, Clara guardò le stelle.
Pensò alle case in cui aveva vissuto, arredate con cura ma mai davvero sue.
Alle strade delle città dove tutto correva troppo in fretta.
Al lavoro che le aveva dato indipendenza, soddisfazioni e una sicurezza economica costruita giorno dopo giorno.

Ripensò a quante volte aveva dovuto scegliere lei stessa
chi far entrare nella sua vita e, soprattutto, chi lasciare fuori.
Aveva saputo proteggersi, investire su di sé,
non permettere mai a nessuno di toglierle la dignità.

Ora, finalmente, non doveva più correre.
Aveva una casa che l’aspettava,
un paese che la guardava con curiosità, sì,
ma le lasciava il tempo di respirare.

Il ritorno non era un passo indietro.
Era il coraggio silenzioso di chi decide di vivere per sé,
senza spiegazioni, senza confronti, senza rumore.

Clara appoggiò le mani sul parapetto e chiuse gli occhi.
Per la prima volta dopo molti anni
sentì di essere nel posto giusto.

La casa l’aveva aspettata.
La vita, forse, anche.

E lei, finalmente, era pronta a starci.


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