
Quando la cucina italiana è stata riconosciuta patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, qualcuno ha applaudito.
Qualcun altro ha storto il naso.
E qualcuno, più attento, ha capito che non si trattava di una celebrazione qualunque.
Era una chiusura di ciclo.
Perché quel riconoscimento non ha sancito la fine della tradizione, come qualcuno ha voluto far credere.
Ha sancito la fine di una stagione: quella della cucina molecolare come avanguardia dominante, come linguaggio salvifico, come promessa di futuro.
Non una condanna, ma una resa dei conti
La cucina molecolare non è stata sconfitta.
È stata superata.
Ha avuto un ruolo storico preciso:
- ha portato metodo,
- ha introdotto controllo,
- ha insegnato precisione,
- ha smascherato l’improvvisazione travestita da talento.
Ma ha anche commesso un errore fatale:
ha pensato di poter sostituire la cucina, invece di servirla.
Quando la cucina italiana viene riconosciuta come patrimonio dell’umanità, il messaggio è chiaro:
👉 il valore non sta nella tecnica che stupisce,
👉 sta nella continuità culturale.

E la continuità non si fa con le spume.
Il pubblico ha votato con la forchetta
La cucina molecolare ha perso consenso non per decreto, ma per stanchezza:
- troppa testa,
- poco stomaco,
- emozione breve,
- memoria nulla.
La cucina italiana, invece, ha resistito perché:
- si rifà,
- si tramanda,
- si sbaglia,
- si corregge,
- si riconosce.
Un piatto molecolare si fotografa.
Un piatto italiano si ricorda.
E l’UNESCO, che guarda alle culture vive e durature, non poteva che prendere atto di questo.
Il riconoscimento che chiude il cerchio
Dichiarare patrimonio dell’umanità una cucina fatta di:
- gesti,
- territori,
- stagioni,
- rituali,
- lentezza,
significa affermare ufficialmente che il futuro non è nella rottura continua, ma nella profondità.
È una frase che suona più o meno così:
“Abbiamo sperimentato abbastanza. Ora torniamo a mangiare.”
Ed è qui che la cucina molecolare si ferma.
Non muore la scienza.
Muore la pretesa di essere l’unica strada possibile.
Oggi la molecolare resta… ma in silenzio
Oggi la cucina molecolare sopravvive dove deve stare:
- nei laboratori,
- dietro le quinte,
- come supporto tecnico,
- come strumento.
Non come protagonista.
Non come linguaggio identitario.
Non come bandiera.
Il sifone non racconta una storia.
Il territorio sì.
Il segnale è stato chiarissimo
L’UNESCO non ha premiato:
- l’innovazione estrema,
- la sorpresa fine a sé stessa,
- la destrutturazione come dogma.
Ha premiato la ripetizione consapevole.
Il gesto che torna.
La cucina che resiste.
E questo, per la cucina molecolare, è stato il funerale più elegante possibile:
senza insulti,
senza polemiche,
senza clamore.
Solo un riconoscimento che dice:
👉 “Grazie per il contributo. Ora basta.”
In una frase sola
👉 «La cucina molecolare non è morta per mancanza di tecnica.
È morta perché la gente ha ancora fame.»
Nota personale
C’è una cosa che, da addetto ai lavori, non ho mai condiviso.
E dico mai.
La cucina molecolare mi ha incuriosito, mi ha insegnato metodo, rigore, rispetto per la tecnica.
Ma non mi ha mai emozionato davvero.
Non mi ha mai fatto tornare a casa con il desiderio di rifare un piatto.
Non mi ha mai lasciato addosso un ricordo.
Non mi ha mai accompagnato nei giorni successivi.
Ho visto piatti perfetti sparire dalla memoria nel tempo di una fotografia.
E piatti imperfetti restare dentro per anni.
Per questo, quando ho letto del riconoscimento UNESCO alla cucina italiana, non ho pensato a una vittoria ideologica.
Ho pensato a una verità semplice, finalmente detta ad alta voce.
La tecnica serve.
La scienza aiuta.
Ma senza una storia, senza un gesto che ritorna, senza una fame vera,
resta solo esercizio.
E io, dopo una vita passata tra tavoli, cucine e persone,
so una cosa sola:
la cucina che conta è quella che qualcuno ricorda quando non è più seduto a tavola.

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