Il tritacarne a mano: quando a Montenerodomo bastava una manovella per fare festa

A Montenerodomo, fino a non tanto tempo fa, c’erano oggetti che non avevano bisogno di elettricità per “mettere in moto” una casa. Bastavano una tavola di legno, una vite stretta bene al bordo del tavolo e una manovella che girava con pazienza. Il tritacarne a mano era uno di questi: un attrezzo pesante, di ghisa, che sembrava nato per durare più delle stagioni e forse anche più delle parole.

Nelle cucine di paese non era un semplice utensile. Era un rito domestico. Un modo di trasformare la materia in cibo, ma anche il tempo in memoria.

Un oggetto che stava in mezzo alla vita

Il tritacarne “buono” spesso non si teneva in bella vista. Stava riposto, magari in cantina o in una credenza, e usciva quando serviva davvero: quando c’era da preparare. E preparare, da noi, voleva dire fare sul serio.

Lo si fissava al tavolo con il morsetto, e già quel gesto aveva qualcosa di solenne. Non era come accendere un elettrodomestico: era come dire alla casa “oggi si lavora”. La manovella iniziava a girare e il metallo rispondeva con un rumore pieno, secco, regolare. Quel suono lo ricordano in tanti: un “grrr-grrr” che sembrava il battito di un cuore meccanico.

E intorno, inevitabilmente, si faceva famiglia.

La giornata del maiale: il tritacarne come protagonista silenzioso

Fino agli anni ’60 e in molte case anche negli anni ’70, la giornata del maiale era una faccenda seria. Non era solo una tradizione: era economia domestica, scorta per l’inverno, rispetto per il lavoro e per il cibo.

Il tritacarne entrava in scena quando la carne doveva diventare altro:

  • macinato per polpette e sughi “importanti”,
  • impasto per salsicce,
  • ripieni e preparazioni da conservare.

Non c’era fretta. C’era cura. E c’era soprattutto la consapevolezza che nulla andava sprecato. Ogni pezzo aveva un destino, e quell’attrezzo aiutava a dargli forma.

Chi girava la manovella spesso era l’uomo di casa o lo zio “pratico”, ma capitava anche che si alternassero: un po’ uno, un po’ l’altro, perché a forza di girare il braccio si stancava. I ragazzi osservavano, imparavano senza che nessuno spiegasse. Era scuola vera, senza banchi.

Il passaggio agli anni ’70: quando arrivò la corrente… ma non cambiò subito la testa

Negli anni ’60-’70 la modernità bussò anche nei paesi. Arrivarono i primi elettrodomestici: frullatori, tritacarne elettrici, robot da cucina. Ma per un bel pezzo il tritacarne a mano restò lì, al suo posto.

Perché non era solo una questione di tecnologia.
Era fiducia.

Quello di ghisa era affidabile. Non si rompeva facilmente, non aveva motori da bruciare, non chiedeva pezzi di ricambio. Bastava pulirlo bene, asciugarlo, ogni tanto ungere leggermente le parti metalliche, e tornava pronto come sempre.

E poi c’era una cosa che oggi si capisce poco: con la manovella controllavi il ritmo. Non era l’oggetto a comandare te: eri tu a comandare l’oggetto.

Il tritacarne come oggetto di memoria

Oggi molti tritacarne di quel tipo sono appesi alle pareti, diventati “arredo rustico”. E va bene: sono belli, raccontano un’epoca. Ma il punto vero non è l’estetica. È ciò che rappresentano.

Rappresentano un’Italia minuta, fatta di gesti, di stagioni, di cucina come responsabilità. Un’Italia in cui il cibo non era “contenuto” da fotografare, ma lavoro da condividere.

A Montenerodomo, fino agli anni ’60-’70, quel tritacarne era una piccola macchina del tempo:

  • riportava in casa i parenti,
  • metteva insieme le mani,
  • dava un suono alle giornate importanti.

E forse è per questo che, quando lo rivedi oggi, non ti sembra solo un attrezzo.
Ti sembra una voce.