
Tutti responsabili, nessun colpevole
In Italia, quando qualcosa non funziona, la prima reazione non è capire chi abbia sbagliato.
La prima reazione è capire come evitare che qualcuno risulti responsabile.
Il problema non è mai una persona.
È sempre un processo.
Un contesto.
Una complessità.
E soprattutto: un sistema.
Un’entità astratta, impersonale, inafferrabile, che assorbe ogni colpa come una spugna e restituisce solo parole.
Quando il problema nasce, la colpa scompare

Un ufficio non risponde.
Un servizio è in ritardo.
Una piattaforma non funziona.
Un progetto fallisce.
La domanda logica sarebbe:
chi ha deciso?
chi ha firmato?
chi ha controllato?
Ma queste sono domande rozze, primitive, inadatte a un Paese evoluto.
La risposta moderna è molto più raffinata:
“La situazione è complessa.”
E con quella parola, complessa, la colpa inizia a dissolversi.
La nascita della commissione

Ogni disfunzione genera immediatamente una creatura mitologica:
la commissione.
La commissione non nasce per risolvere.
Nasce per diluire.
Più il problema è serio, più la commissione cresce.
Cinque membri sono pochi.
Dieci sono meglio.
Quindici garantiscono l’impossibilità di decidere.
La commissione studia.
Analizza.
Approfondisce.
Nel frattempo, il tempo passa.
E con il tempo passa anche la memoria di chi ha causato il problema.
Tavoli, sottotavoli e superfici lisce
Se la commissione non basta, si passa al livello successivo:
il tavolo di lavoro.
Il tavolo è un’evoluzione naturale.
Non produce soluzioni, ma verbali.

Attorno al tavolo siedono tutti:
dirigenti, consulenti, referenti, coordinatori, facilitatori, esperti esterni.
Ognuno porta un pezzo di competenza.
Nessuno porta una decisione.
Alla fine, il tavolo partorisce una frase impeccabile, elegante, inattaccabile:
“Sono emerse alcune criticità riconducibili a fattori sistemici.”
Traduzione:
non è colpa di nessuno.
La responsabilità che evapora

In questo meccanismo, la responsabilità subisce una trasformazione chimica.
Da solida diventa gassosa.
Più persone coinvolgi,
meno qualcuno risponde.
Più livelli crei,
meno qualcuno firma.
Alla fine, l’unico responsabile rimasto è il sistema.
Ma il sistema non può essere sanzionato.
Non può essere trasferito.
Non può essere rimosso.
Il sistema non va in tribunale.
Non perde il posto.
Non rinuncia all’indennità.
Il capolavoro della neutralità

Il vero capolavoro non è l’inefficienza.
È la sua normalizzazione.
Nessuno urla.
Nessuno litiga.
Nessuno sbaglia.
Le cose semplicemente non funzionano.
Ma senza colpevoli, il fallimento non è mai tale.
È solo una “fase di transizione”.
Una “criticità temporanea”.
Un “disallineamento”.
Parole che non offendono nessuno,
ma che non risolvono nulla.
Quando nessuno sbaglia, sbaglia

sempre qualcuno
Alla fine della catena, però, c’è sempre qualcuno che paga.
Non è chi ha deciso.
Non è chi ha firmato.
Non è chi ha valutato.
È chi aspetta.
Chi subisce il disservizio.
Chi perde tempo, diritti, occasioni.
Ma quello non viene mai chiamato danno.
È un effetto collaterale.
Una variabile inevitabile.
Il cittadino non rientra nel perimetro delle responsabilità.
Rientra solo in quello delle conseguenze.
Conclusione – Il Paese dove tutti fanno la loro parte
In Italia tutti fanno la loro parte.
Ed è proprio questo il problema.
Perché quando tutti sono responsabili,
nessuno lo è davvero.
E finché la colpa resta un concetto collettivo,
l’errore diventa una tradizione.
La disfunzione una prassi.
Il fallimento una forma di continuità.
Un’altra eccellenza nazionale.
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