📚 3 Episodio Valigie di cartone

Storia romanzata dell’emigrazione… ma non troppo

La prima domenica

Airolo, autunno 1947

La prima domenica arrivò senza preavviso, come un respiro dopo troppi giorni trattenuti.

Antonio aprì gli occhi e non sentì il pugno secco dello zio sulla spalla, né la frase «È ora» che gli batteva nella testa ogni mattina. Il silenzio gli parve sospetto, quasi sbagliato.

Si tirò su a sedere di scatto, il cuore accelerato.
La stanza era fredda, la stufa spenta. L’alito gli usciva dalla bocca in piccole nuvole leggere. Non era gelo d’inverno, ma un freddo umido, insistente, che si infilava ovunque.

Lo zio era già vestito. Gli voltò appena la testa.

«È domenica» disse.
«Muoviti: si va a messa. E poi in locanda.»

Non c’era entusiasmo nella sua voce.
La domenica non era un dono.
Era semplicemente l’unico giorno in cui la montagna non li reclamava.
E questo la rendeva un giorno pericoloso, pieno di ricordi.


Il cammino nel paese

Uscirono in strada.

Airolo era immersa in un grigio denso. Le case di pietra sembravano chiuse in sé stesse, le finestre appannate dal fiato delle stufe. L’odore di legna bruciata si mescolava all’umidità dell’aria.

Non c’era neve.
Solo foglie scure schiacciate sull’asfalto, terra bagnata, pozzanghere sottili che riflettevano un cielo basso.

Gli stivali di Antonio facevano un rumore sordo a ogni passo.
Quel suono gli strinse il cuore.

A quest’ora, in Abruzzo, avrei già sentito le campane…

Sua madre si alzava prima di tutti.
Metteva il latte sul fuoco, immergeva una fetta di pane duro per i più piccoli. Poi indossava la veste buona, sistemava il fazzoletto sul capo, e la domenica entrava in casa con un profumo diverso.

Il padre lucidava le scarpe, brontolando perché i bambini correvano nel fango.

La domenica, in Abruzzo, era larga.
Qui, invece, era stretta.
Stretta come le strade umide del paese.


La chiesa

La chiesa di Airolo era piccola e solida, le pietre scure annerite dal tempo e

dall’umidità.

Dentro, l’odore di cera consumata e legno antico colpì Antonio allo stomaco. Gli tornò alla mente la Madonna col mantello azzurro che sua madre sfiorava sempre con due dita, prima di sedersi.

Gli italiani si disposero in fondo, tutti insieme.
Non per timidezza.
Per abitudine.

Il parroco parlava in tedesco.
Una lingua dura, fatta di suoni brevi e netti.

Antonio non capiva le parole, ma ne sentiva il senso: resistere, reggere, non cedere. Anche la fede, lì, sembrava una questione di forza.

A metà omelia un uomo svizzero si voltò a guardarli. Uno sguardo lungo, non ostile, ma distante. La moglie gli toccò il gomito per farlo smettere.

Antonio abbassò gli occhi.
La distanza si sentiva più del freddo.


La locanda – Il pranzo degli emigranti

Dopo la messa, gli italiani si diressero verso la locanda in fondo alla piazza.

La porta si aprì e un calore spesso li avvolse.
Odore di polenta, di carne stufata, di vino.

Il padrone arrivò con i piatti:

– una scodella grande di polenta gialla, fumante
– un pezzo di manzo in umido, cotto a lungo con cipolla e vino
– pane scuro
– un bicchiere di rosso robusto

«Oggi vi trattiamo bene» disse.

La carne era un lusso da domenica.
Un regalo che sapeva di casa.

Il barese sollevò il piatto e annusò.
«Questo profumo ti rimette in piedi anche se sei morto.»

Il siciliano rise.
«Questa non è carne… è un miracolo.»

Antonio mangiò piano. Ogni boccone gli ricordava l’infanzia, quando un pezzetto bastava a sentirsi ricchi.

Un veneto tirò fuori la fisarmonica.
Una melodia lenta riempì la stanza.

La nostalgia entrò senza chiedere permesso.

Il barese si sedette accanto ad Antonio.

«La domenica fa così, paisà.
Ti fa ricordare tutto quello che negli altri sei giorni cerchi di dimenticare.»

«E a te cosa ricorda?» chiese Antonio.

«Che ho due figli giù» rispose l’uomo.
«E che se mi fermo io… si fermano loro.»

Lo disse senza lamento.
Con la semplicità di chi non ha alternative.


Il paese nel pomeriggio

Uscirono che il pomeriggio era già corto.
La luce d’autunno durava poco, scivolava via in fretta.

Camminarono tra le foglie bagnate.
Qualcuno salutò con un cenno.
Altri cambiarono lato della strada.

Lo zio camminava davanti. Si fermò un attimo, guardando il paese come si guarda qualcosa che si conosce, ma non ti appartiene.

«Col tempo ci faranno l’occhio» disse.
Poi aggiunse, piano:
«Abituarsi a vederci… sì.
Volerci bene… quello non lo so.»


La lettera

A casa, la stufa scaldava solo metà stanza.

Antonio sedette al tavolo con un foglio davanti.

Scrisse:

Cari mamma e papà,
oggi è domenica e ho pensato molto a voi.

Si fermò. Poi continuò:

Qui fa freddo, ma imparo.
Il lavoro è duro, ma non ho più la paura del primo giorno.


Lo zio mi aiuta. Non sono solo come credevo.

Cancellò una frase, ne riscrisse un’altra.
Diceva solo ciò che poteva dire senza ferirli.

Ripiegò il foglio.
La busta sarebbe partita con la paga.


Il momento con lo zio

Lo zio gli si avvicinò in silenzio.
Gli posò una mano sulla spalla.

«La prima domenica pesa» disse.
«Poi un po’ meno.
Ma non passa mai davvero.»

Antonio annuì.


La notte

Sotto la coperta ruvida, sentì per la prima volta la vera distanza da casa.
Non chilometri.
Giorni.

Giorni senza campanile, senza odore di cucina, senza la voce di sua madre.

Fuori, il vento d’autunno premeva sui vetri.
La montagna respirava.

La domenica si chiuse così:
come un libro che non ti lascia dormire.

Il lunedì lo aspettava.

E lui era pronto a tornare
nel ventre della montagna.


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