
Il tempo che lo supera
C’è un momento, nella vita di ogni protagonista,
in cui la storia non lo combatte più.
Lo aggira.
Per Gabriele D’Annunzio, quel momento arriva negli ultimi anni Trenta,
quando l’Italia ha ormai imboccato una strada
che non prevede ritorni né deviazioni.
Il regime si è consolidato.
La voce è una sola.
Il passo è obbligato.
E il poeta, che aveva incendiato parole e città,
resta indietro.
Da uomo pericoloso a figura rassicurante
D’Annunzio non è più temuto.

Non è più corteggiato come possibile alternativa.
Non è più osservato come variabile instabile.
È diventato sicuro.
Un grande nome del passato.
Un simbolo controllabile.
Una gloria nazionale ormai incastonata.
Il potere lo onora,
ma non lo consulta.
Lo celebra,
ma non lo ascolta.
Il Vittoriale diventa tappa obbligata,
luogo di pellegrinaggio,
non più di confronto.
Le autorità passano,
si inchinano,
ripartono.
Il poeta resta.
Il mito imbalsamato

La trasformazione è sottile, ma definitiva.
D’Annunzio non viene cancellato.
Viene fissato.
Il suo volto diventa immagine.
Le sue frasi diventano citazioni.
La sua vita viene semplificata.
Il mito, una volta vivo e contraddittorio,
viene ripulito delle sue asperità.
Niente più ambiguità.
Niente più eccessi scomodi.
Niente più contraddizioni.
Il Vate diventa una figura da manuale,
da cerimonia,
da anniversario.
E questo, per un uomo come lui,
è una seconda sconfitta.
Vivere mentre si viene superati
D’Annunzio è ancora vivo.

Lucido a tratti.
Ironico.
Talvolta spietato.
Vede ciò che accade.
Capisce di non essere più necessario.
Il mondo che avanza
non ha bisogno di poeti complessi.
Ha bisogno di parole semplici,
ripetibili,
disciplinate.
Lui, che aveva fatto della parola
un atto individuale e irripetibile,
non trova più spazio.
E non si adatta.
Non protesta.
Non collabora di più.
Non si reinventa.
Resta.
Il Vittoriale come tempo fermo

Mentre l’Italia si militarizza,
mentre l’Europa si arma,
mentre il futuro si oscura,
il Vittoriale sembra sospeso.
È un luogo fuori dal tempo.
Protetto.
Irreale.
Qui le giornate scorrono lente.
Le notti si allungano.
I ricordi occupano più spazio del presente.
Il poeta vive circondato da ciò che è stato.
Non come rimpianto,
ma come resistenza passiva.
Se non può incidere sul futuro,
almeno impedirà
che il passato venga deformato del tutto.
L’ultima forma di potere
D’Annunzio comprende che l’unico potere che gli resta

è non farsi ridurre.
Non diventare caricatura.
Non diventare slogan.
Non diventare voce prestata.
Accetta l’immobilità
come ultima difesa della complessità.
È una scelta amara,
ma coerente.
Meglio essere superati
che tradire se stessi.
Chiusura
Il Capitolo 26 si chiude così:
con un uomo ancora vivo
mentre il suo tempo è già passato.
La storia non lo combatte più.
Lo ha semplicemente oltrepassato.
E D’Annunzio, fermo al Vittoriale,
assiste al mondo che accelera
senza più voltarsi indietro.
Non è dimenticato.
Ma non è più necessario.
E forse,
per chi aveva voluto essere tutto,
questa è la prova più dura.

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