Donbass, Groenlandia, Taiwan: il ritorno della forza

Non siamo alla vigilia di una guerra mondiale, ma alla fine delle illusioni.

C’è una domanda che attraversa il nostro tempo senza trovare spazio nei titoli gridati: le mappe sono ancora intoccabili?
Per trent’anni abbiamo vissuto nell’idea che la forza fosse stata archiviata come residuo del Novecento, sostituita da trattati, mercati, organismi internazionali. Ci siamo raccontati che il mondo fosse entrato in una fase adulta, dove i conflitti si risolvevano per via tecnica e diplomatica.

Oggi quella narrazione scricchiola. Non perché la guerra sia tornata “come prima”, ma perché la forza ha ricominciato a contare. Non sempre con i carri armati, non sempre con le invasioni. Spesso in modo più lento, più ambiguo, più efficace.

Tre luoghi, apparentemente lontani e scollegati, raccontano lo stesso movimento profondo: Donbass, Groenlandia, Taiwan.


Il Donbass: la guerra che non cerca la vittoria

Nel Donbass la guerra non è più un evento: è diventata una condizione.
La strategia di Mosca, sotto la guida di Vladimir Putin, non punta al trionfo rapido, ma al logoramento. Tenere, resistere, aspettare che l’attenzione altrui scivoli altrove. Non conquistare tutto, ma rendere irreversibile ciò che già controlla.

È una guerra che stanca prima le opinioni pubbliche che gli eserciti. Una guerra che si normalizza.
E quando una guerra si normalizza, smette di scandalizzare. Diventa sfondo. Diventa mappa.

Il Donbass ci sta insegnando che oggi non serve vincere: basta non perdere mai davvero.


Groenlandia: la conquista senza invasione

Quando Donald Trump parlò di “comprare” la Groenlandia, molti risero. Sembrava una boutade, una provocazione da talk show. Eppure, dietro quella frase c’era una verità strategica limpida: la Groenlandia è una chiave.

Artico, rotte commerciali, risorse minerarie, controllo militare.
Non serve annettere un territorio se puoi condizionarne le scelte, garantirti presenza, renderlo dipendente dalla tua protezione.

Qui la forza non si mostra: si posiziona.
Basi, accordi, investimenti, sicurezza. È una conquista silenziosa, che non viola formalmente il diritto internazionale ma ne sfrutta tutte le crepe.

La Groenlandia racconta un mondo in cui la sovranità non viene più strappata, ma svuotata dall’interno.


Taiwan: l’assedio del tempo

Taiwan è la soglia che nessuno vuole attraversare apertamente.
Per la Cina, Taiwan non è “un altro Stato”, ma una questione irrisolta della propria storia. E proprio per questo l’uso diretto della forza è l’ultima carta, non la prima.

La strategia è diversa: pressione costante, economica, militare, psicologica.
Sorvoli, manovre navali, isolamento diplomatico. Un assedio che non chiude i porti, ma chiude gli spazi mentali.

Qui la forza non esplode: si accumula.
E il tempo diventa un’arma più potente dei missili.

Taiwan ci mostra che la guerra moderna può esistere anche senza iniziare davvero.


Il filo che lega tutto

Donbass, Groenlandia, Taiwan non sono capitoli di un complotto globale.
Sono sintomi dello stesso passaggio storico.

Stiamo entrando in un mondo dove:

  • le regole valgono finché convengono
  • il diritto internazionale non scompare, ma non basta più
  • la forza torna a essere un argomento, anche quando non spara

Non è il ritorno della guerra totale.
È il ritorno della forza come linguaggio legittimo delle relazioni internazionali.


La fine delle illusioni

Non siamo alla vigilia di una guerra mondiale.
Ma siamo alla fine dell’illusione che il mondo fosse ormai regolato solo da norme, mercati e buone intenzioni.

La domanda non è chi prenderà cosa.
La domanda è: chi pagherà il prezzo del silenzio, della stanchezza, dell’abitudine.

Perché quando la forza torna, non lo fa mai annunciandosi.
Arriva piano.
E quando ce ne accorgiamo, la mappa è già cambiata.