
Perché l’unione dei borghi resta un sogno irrealizzato
In Italia ci sono oltre 5.500 comuni con meno di 5.000 abitanti. Una costellazione di borghi, paesi e paesini che punteggiano montagne, colline e vallate. Ognuno con il suo campanile, la sua piazza, il suo municipio. E soprattutto con il suo sindaco. Una figura che, nei piccoli centri, ha un peso che va ben oltre l’amministrazione quotidiana.
Sulla carta, il sindaco è l’amministratore della comunità: colui che si occupa di bilanci, strade, scuole, servizi, rapporti con la Regione e con lo Stato. Ma nella pratica, in molti borghi, quella fascia tricolore diventa molto di più: un simbolo di potere, di riconoscimento sociale e, soprattutto, un modo per avere un’entrata economica. In poche parole, una poltrona che rischia di trasformarsi in un “posto di lavoro”.
Una poltrona più utile di un ufficio
Nei piccoli comuni l’indennità di sindaco non è certo paragonabile a uno stipendio pieno, ma spesso rappresenta l’unico reddito stabile per chi non ha altre occupazioni. A questo si aggiungono rimborsi, visibilità, relazioni, qualche possibilità di incarichi o progetti collegati. Così, anche se sulla carta non è un lavoro, nella sostanza può diventarlo.
E quando una poltrona diventa fonte di reddito, diventa anche qualcosa da difendere. Il che spiega perché, ogni volta che si parla di unire comuni, razionalizzare spese, ridurre poltrone, scatta la resistenza: “Perché dovrei rinunciare alla mia fascia, alla mia visibilità, al mio ruolo?”.
L’unione dei borghi: una buona idea che resta sulla carta
Da anni si parla di unioni e fusioni dei comuni. La logica è semplice: se un piccolo borgo non riesce a gestire da solo servizi come trasporto scolastico, raccolta rifiuti, manutenzione, meglio unirsi ad altri e dividere costi e responsabilità.
In teoria, sembra la soluzione più razionale per affrontare lo spopolamento, la mancanza di risorse e la necessità di servizi moderni. Ma nella pratica non funziona quasi mai. Perché? Perché oltre ai problemi tecnici e normativi, c’è un ostacolo umano e politico enorme: i sindaci stessi.
Perché i sindaci non vogliono mollare
- Ego personale e status
Fare il sindaco, in un piccolo borgo, non è solo una funzione amministrativa. È prestigio. È essere “il primo cittadino”. Rinunciare significa passare da protagonista a comparsa. - Indennità economica
In molti casi, l’indennità è l’unico reddito o comunque un’integrazione importante. Con l’unione, quella poltrona svanisce. E con essa il piccolo “posto di lavoro” che ne deriva. - Paura di perdere controllo
Ogni sindaco teme che, unendo i comuni, il suo borgo diventi marginale. “E se la sede finisce nel paese vicino? E se noi restiamo un’appendice?” - Incertezze sugli incentivi
Le leggi nazionali promettono contributi economici ai comuni che si fondono, ma gli incentivi sono spesso temporanei o incerti. Chi rinuncerebbe a una poltrona sicura per un beneficio ipotetico?
Numeri che parlano da soli
- In Italia ci sono 2.000 comuni con meno di 1.000 abitanti.
- Le aree interne hanno perso quasi 700.000 persone in 10 anni.
- L’82% dei piccoli comuni sarà in declino demografico nei prossimi dieci anni.
Eppure, invece di unirsi per sopravvivere, molti borghi preferiscono resistere da soli. Anche a costo di restare senza servizi. Perché la logica amministrativa si scontra con la logica personale: meglio un paese vuoto con un sindaco, che un’unione piena senza poltrona.
Gli esempi che non convincono
Ci sono stati tentativi di unioni di comuni. Alcune sono nate, poche hanno funzionato, diverse si sono sciolte. Troppo complicato, troppi conflitti di interesse, troppa paura di perdere centralità.
È come se il “riordino amministrativo” fosse una creatura ideale che non trova terreno fertile. Ogni sindaco, anche il più illuminato, si trova davanti alla stessa domanda: “Vale la pena rinunciare a tutto questo per un’idea di futuro che forse non arriverà mai?”.
Un paradosso tutto italiano
Il paradosso è evidente: da un lato ci si lamenta che i borghi muoiono, che mancano risorse, che i servizi costano troppo. Dall’altro, quando si propone di unirsi, arriva il rifiuto. Non per ragioni di identità culturale (che pure esistono), ma spesso per questioni molto più terra terra: la poltrona del sindaco come ammortizzatore sociale.
E così il borgo resta piccolo, fragile, isolato. Ma con il sindaco.
Conclusione
L’unione dei borghi sarebbe una via logica per dare un futuro a territori che altrimenti rischiano di scomparire. Ma logica e politica, soprattutto a livello locale, raramente vanno d’accordo.
Finché la carica di sindaco verrà percepita e vissuta come un “posto di lavoro”, sarà quasi impossibile convincere gli amministratori a rinunciare al proprio ruolo per il bene collettivo. Perché la sopravvivenza del borgo sembra contare meno della sopravvivenza della poltrona.
E allora la domanda resta aperta: vogliamo davvero salvare i borghi, o ci accontentiamo di salvarne i sindaci?