🎓 Laureati disoccupati e autodidatti milionari: chi ha ragione?

Quando il pezzo di carta pesa meno di un cocktail ben shakerato

C’è chi suda cinque anni su manuali da mille pagine, tesi scritte a caratteri minuscoli e professori con lo sguardo da inquisizione spagnola. Poi esce dall’aula magna, con la corona d’alloro in testa e il CV sotto braccio… e scopre che il mercato del lavoro gli offre al massimo uno stage non retribuito con ticket restaurant da 5 euro.

Dall’altra parte, c’è il ragazzo che ha imparato da solo a smanettare con il codice, o la barista che si è inventata cocktail stellari dopo aver visto due tutorial su YouTube: fatturati che salgono più velocemente di un indice Nasdaq in bolla.


📜 Il culto del pezzo di carta

In Italia il titolo di studio ha ancora il valore sacrale della reliquia. Se non hai la laurea, sembri quasi un abusivo nel tempio del lavoro. Non importa se sai fare, l’importante è che tu abbia studiato — e che possa esibire quel certificato incorniciato in salotto come una Madonna sul comodino.

Per decenni è stato l’ascensore sociale per eccellenza: bastava esibire il titolo per passare dalla campagna all’ufficio, dal paese alla città, dalla tuta alla cravatta. Ma oggi quell’ascensore sembra fermo ai piani bassi: il laureato resta ad aspettare, mentre l’autodidatta prende le scale di corsa e arriva in alto prima.


🛠️ La rivincita del “saper fare”

La realtà è che chi aggiunge competenze pratiche al proprio profilo trova lavoro più facilmente. Che si tratti di un linguaggio di programmazione, di una certificazione digitale, di una lingua in più o di soft skill come la leadership, le aziende guardano sempre di più a chi è operativo da subito.

Traduzione: chi costa meno tempo e formazione.

Eppure, in Italia lo skill-first hiring rimane più un tema da convegno che una pratica reale. Nei settori regolamentati — medicina, diritto, finanza — il pezzo di carta resta obbligatorio. Ma altrove la domanda è semplice: “Che sai fare?”.


😂 Esempi che fanno male

  • Laurea in filosofia teoretica → 900 curriculum inviati, 3 colloqui, 0 contratti.
  • Autodidatta del digitale → un sito e-commerce fatto in cameretta, ora rivende tazze personalizzate e paga l’IVA da imprenditore.
  • Laurea in giurisprudenza → praticantato non retribuito, caffè portati all’avvocato.
  • Barista autodidatta → finalista al World Class Cocktail Competition, foto su riviste internazionali.

Il paradosso è servito: mentre il “pezzo di carta” si ammuffisce nel cassetto, il “saper fare” fa curriculum.


🔮 Prospettive future

Immaginiamo un’Italia in cui la laurea non è più il lasciapassare universale. I colloqui potrebbero trasformarsi in veri e propri talent show:

  • al programmatore ti danno un bug da risolvere sul momento;
  • al barista shaker e ghiaccio: se il cocktail è bevibile, il contratto è tuo;
  • al professore un’aula di ragazzini iperattivi: se ne esci vivo, sei assunto a tempo indeterminato.

I concorsi pubblici diventerebbero “Olimpiadi delle competenze”: chi compila un modulo INPS senza piangere vince la medaglia d’oro.

Forse sarebbe più onesto così. Perché la conoscenza teorica resta fondamentale, ma se la società cambia al ritmo di un aggiornamento software, non possiamo pensare che un esame superato dieci anni fa valga ancora oggi come lasciapassare automatico.


⚖️ Chi ha ragione?

Forse nessuno. O forse entrambi. La laurea serve ancora nei settori che richiedono abilitazioni precise, ma le competenze sono il nuovo oro in un mercato che cambia di continuo.

La verità è che il pezzo di carta non basta più, ma nemmeno il “saper fare” da solo: serve la miscela. Un po’ come un cocktail ben fatto: se hai solo il bicchiere (la laurea) resta vuoto; se hai solo gli ingredienti (le competenze) ma non sai presentarli, rischi che nessuno lo beva.


🖋️ Firma: Il Sognatore Lento

💬 E voi, siete più “team laurea incorniciata” o “team saper fare subito”?

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