Capitolo 5 – Il Ventennio fascista nei borghi montani: silenzi, propaganda e attese

Introduzione

Il fascismo cambiò il volto dell’Italia, ma nei piccoli borghi dell’Appennino il suo impatto fu diverso rispetto alle città.
Montenerodomo, come tanti paesi del Medio Sangro, visse il Ventennio in una dimensione sospesa: lontano dalle adunate oceaniche e dai grandi cantieri, ma pur sempre sotto lo sguardo vigile del regime.
Qui la vita rimase soprattutto rurale, segnata da silenzi, obblighi calati dall’alto e quotidianità che scorreva con il ritmo antico delle stagioni.


La propaganda nei borghi

Il fascismo arrivò anche nei vicoli di Montenerodomo.
Nelle scuole comparvero i ritratti del Duce, i gagliardetti e le frasi ad effetto. I bambini furono arruolati nei Balilla e nelle Piccole Italiane, vestiti con divise improvvisate e guidati in piccole adunate in piazza.
Non erano le folle di Roma, ma cerimonie semplici, quasi forzate, che servivano a ribadire che il regime non dimenticava nessuno, nemmeno i paesi arroccati sulla Maiella.


La vita contadina sotto il regime

Dietro la scenografia, la vita rimaneva quella di sempre.
I contadini si alzavano all’alba per i campi, i pastori seguivano le greggi, le donne reggevano case e stalle.
Le direttive di Roma si facevano sentire soprattutto nelle tasse, nei prezzi imposti, nella scarsità di beni di prima necessità come sale, olio o stoffa.
Il regime parlava di “ruralizzare l’Italia”, ma a Montenerodomo la ruralità non era una politica: era la realtà quotidiana, dura e ineludibile.


Emigrazione frenata, ma non spenta

Il fascismo tentò di frenare l’emigrazione, temendo di svuotare i paesi, ma non riuscì a bloccarla del tutto.
Alcuni monteneresi partirono comunque, a volte clandestinamente, verso l’America o l’Europa.
Chi restava viveva in famiglie numerose, spesso guidate dai nonni mentre i padri erano lontani. L’assenza, l’attesa e le lettere dall’estero segnavano il ritmo della comunità.


Il controllo politico

Anche nei paesi più piccoli non mancava il segretario del fascio locale, incaricato di vigilare sulle iscrizioni e sulle adunate.
Non era sempre una figura osteggiata, ma piuttosto tollerata per necessità. Nei vicoli si imparò presto l’arte del silenzio: parlare poco, non esporsi, adattarsi.
La politica non si discuteva apertamente: sopravviveva nei bisbigli e nelle frasi a mezza voce.


Le promesse mancate

Il regime prometteva nuove strade, scuole e infrastrutture.
In realtà, a Montenerodomo arrivarono solo pochi interventi: qualche tratto di strada dissestata rattoppato alla meglio, piccoli lavori simbolici, nulla che rompesse davvero l’isolamento del paese.
Così i giovani continuavano a guardare lontano, verso la valle o l’estero, sognando un futuro diverso da quello che li attendeva tra le montagne.


Un’attesa sospesa

Gli anni Trenta portarono con sé la retorica autarchica: raccolte di ferro, tessuti poveri al posto delle stoffe pregiate, sostituti alimentari al posto dei prodotti veri.
Ma la vera frattura arrivò con il 1940, quando l’Italia entrò in guerra. Da quel momento anche Montenerodomo, fino ad allora rimasto nell’ombra, venne trascinato in un vortice più grande di lui.


Conclusione

Il Ventennio fascista a Montenerodomo non fu scandito da grandi eventi, ma da piccole imposizioni e lunghi silenzi.
Un tempo sospeso, in cui la vita quotidiana scorreva sotto l’ombra di un potere lontano e invadente.
Nessun entusiasmo, nessuna resistenza aperta: solo l’attesa, quasi rassegnata, di un destino che sarebbe esploso con la Seconda guerra mondiale.

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