
“La dichiarazione di guerra del 1940 aprì la strada all’8 settembre e all’occupazione nazista.”
Il fascismo, nato nel 1922 con la marcia su Roma, aveva costruito un potere che penetrava in ogni angolo della vita. Vent’anni di propaganda, simboli e riti avevano trasformato il Paese in una comunità obbediente, pronta a esaltare il Duce e a sacrificare la libertà in nome di un presunto destino di grandezza.
Quando Mussolini decise di entrare in guerra nel 1940, la retorica parlò di un conflitto breve e glorioso. La realtà si rivelò amara: l’Italia non era preparata, l’esercito mancava di mezzi, la popolazione cominciò a soffrire sotto i bombardamenti, i razionamenti e le perdite al fronte. L’entusiasmo iniziale si trasformò presto in stanchezza e rassegnazione.
L’8 settembre 1943
Lo spartiacque arrivò con l’armistizio di Cassibile, firmato il 3 settembre e annunciato alla radio l’8 settembre 1943. La voce del maresciallo Pietro Badoglio sorprese gli italiani con parole che, per alcuni, suonarono come liberazione, per altri come tradimento.
In poche ore, il Paese precipitò nel caos. I soldati al fronte furono abbandonati senza ordini: molti vennero catturati dai tedeschi, altri si dispersero, altri ancora scelsero di unirsi ai partigiani. La monarchia e il governo lasciarono Roma, rifugiandosi a Brindisi. L’Italia si ritrovò divisa in due: il Sud sotto il controllo degli Alleati, il Centro-Nord occupato dalle truppe tedesche. Fu l’inizio della pagina più drammatica della nostra storia.
L’occupazione tedesca e la Repubblica Sociale
La Germania reagì con velocità e brutalità. Le sue truppe presero il controllo delle città, delle strade e delle infrastrutture. Il 12 settembre un commando nazista liberò Mussolini sul Gran Sasso: il Duce fu riportato al potere a capo della Repubblica Sociale Italiana, un regime fantoccio legato a Berlino.
L’occupazione portò con sé rastrellamenti, deportazioni, fucilazioni sommarie. Gli ebrei italiani, fino ad allora discriminati ma non perseguitati sistematicamente, divennero vittime delle retate nazifasciste e furono deportati nei campi di sterminio. Per la popolazione civile, già stremata dalla guerra, iniziò un periodo di violenza cieca e senza regole.
L’Abruzzo in trincea
La Linea Gustav, costruita dai tedeschi per fermare l’avanzata degli Alleati, tagliava in due la penisola dal Tirreno all’Adriatico. L’Abruzzo si ritrovò proprio nel cuore di questo fronte. La valle del Sangro divenne teatro di battaglie durissime e di occupazione.
Paesi come Montenerodomo, Gessopalena, Taranta Peligna, Torricella Peligna e Palena vissero mesi di terrore. Le famiglie furono costrette ad abbandonare le case, rifugiandosi nei boschi o nelle grotte. Le montagne, un tempo luogo di pastori e contadini, divennero rifugi precari di donne, bambini e anziani. Chi rimaneva rischiava di essere deportato o fucilato.
La violenza non cancellò, però, la solidarietà. Nelle difficoltà nacquero gesti di coraggio: donne che curavano i feriti, famiglie che dividevano il poco cibo rimasto, giovani che facevano da staffette per i partigiani. Resistere significava anche solo sopravvivere senza piegarsi al terrore.
Memoria e dignità
Montenerodomo, come tanti altri borghi dell’Appennino, pagò un prezzo altissimo. Case distrutte, famiglie disperse, vite spezzate. Eppure, tra le rovine, la comunità seppe trovare la forza di rialzarsi.
L’8 settembre non fu soltanto una data storica, ma una ferita profonda che cambiò il volto del Paese. Ricordarla oggi significa riconoscere il sacrificio silenzioso di uomini e donne comuni, che con dignità hanno sostenuto la vita nei momenti più bui. La libertà di cui godiamo nasce anche da quella resistenza civile, fatta di dolore, di coraggio e di memoria.