Capitolo 10 – Montenerodomo, 1944-48: il dilemma della ricostruzione

Quando, nella primavera del 1944, i tedeschi si ritirarono dalla Linea Gustav e gli Alleati avanzarono lungo la valle del Sangro, per Montenerodomo cominciò una nuova fase della sua storia. Dopo mesi di sfollamento forzato, fame e privazioni, le famiglie provarono a rientrare.

Il ritorno non fu un abbraccio ma uno schiaffo: dove un tempo sorgeva il borgo antico, le case addossate alla rupe, le chiese e i palazzi signorili, c’erano solo macerie annerite dal fuoco, pietre sparse e muri crollati. La furia della terra bruciata aveva cancellato in poche settimane secoli di storia.

Gli sfollati, reduci dai boschi di Paganello, dalle contrade di Casale, da Roccascalegna e Altino, percorsero di nuovo i sentieri per rientrare. Trovarono un paese spettrale, silenzioso, dove persino le strade sembravano smarrite. Qualcuno pianse davanti al vuoto lasciato dalla propria casa; altri si fecero coraggio cominciando a recuperare pietre e travi per improvvisare rifugi di fortuna. Tutti compresero che la sfida più grande era appena cominciata: ricostruire.


Il problema della ricostruzione

La questione non era solo materiale – riedificare tetti, dare riparo a chi non aveva più nulla – ma anche simbolica: dove e come ricostruire il paese? Restare fedeli al vecchio sito o cogliere l’occasione per ripensare Montenerodomo in un luogo più adatto alla vita moderna?

Fin dai primi mesi dopo la liberazione, la comunità si divise. La discussione non coinvolse solo i capi famiglia e l’amministrazione comunale, ma attirò l’attenzione anche di autorità provinciali e governative.


Fonticelle: la proposta di un nuovo inizio

Le autorità governative, giunte in visita, furono chiare: bisognava cogliere la tragedia come occasione per ripensare la topografia del paese. Le case distrutte non offrivano garanzie, i vicoli stretti erano inadatti al passaggio dei mezzi moderni, e le difficoltà logistiche sarebbero rimaste.

La proposta era ambiziosa: trasferire Montenerodomo a Fonticelle, a un chilometro dal centro distrutto, ai confini con l’area archeologica di Juvanum. Lì si poteva immaginare un impianto urbano nuovo, con strade più larghe, servizi accessibili e abitazioni moderne.

Gli uffici tecnici provinciali e il Genio Civile di Chieti appoggiarono l’idea. Nel 1946 approvarono, a tempo di record, la costruzione di 16 appartamenti e 12 villette per dare un primo rifugio ai senza tetto. Quelle abitazioni furono assegnate soprattutto alle famiglie che prima abitavano sulle zone più alte e scomode della rupe – le contrade de “Le Colle” e la “Catarosce” – e che vedevano in Fonticelle una possibilità concreta di vita migliore.


La controparte: restare sulla rupe

Non tutti erano d’accordo. Una parte consistente della popolazione si oppose con fermezza al trasferimento.

Gli oppositori sostenevano che spostando il paese a Fonticelle sarebbe stato più difficile raggiungere i campi situati verso Pizzoferrato, nelle contrade di Lago Saraceno e Selvoni, vitali per l’economia agricola.

Inoltre, la ricostruzione nella piana avrebbe comportato costi maggiori: scavi per nuove fondamenta, costruzione di infrastrutture, trasporto dei materiali recuperabili dalle macerie del vecchio borgo. Infine, i tempi sarebbero stati più lunghi, mentre le famiglie avevano bisogno urgente di un tetto.


La controversia e il referendum

Il contrasto crebbe fino a coinvolgere direttamente l’amministrazione comunale, che decise di affidarsi al giudizio popolare. Nella primavera del 1946 fu promosso un referendum per determinare la località della ricostruzione.

La decisione fu chiara: la maggioranza delle famiglie scelse di non spostare il paese e di riedificarlo sul vecchio sito.

Con delibera del 3 agosto 1946, la giunta municipale – sotto la presidenza del commissario prefettizio – stabilì che «le nuove case per i senza tetto di Montenerodomo vengano edificate in muratura nella località di Piano Janiero, di esclusiva proprietà del Comune di Montenerodomo, facendo sorgere nella predetta piana tutti gli uffici pubblici, al solo scopo di evitare lo spopolamento del paese».


Un nuovo inizio tra le macerie

Il paese cominciò così a risorgere sulle rovine della guerra. La sommità della rocca, il Colle Catarosce, fu progressivamente abbandonata. Persino i Croce, una delle famiglie più in vista, ricostruirono il proprio palazzo non più sulla rupe, ma dietro la Fonte della Selva, in una zona più comoda e accessibile soprattutto ai mezzi di trasporto.

Sulla rupe rimase soltanto la chiesa di San Martino, che continuò a svettare solitaria, simbolo di continuità in mezzo a un paese che cambiava volto.

L’asilo infantile, inaugurato il 9 marzo 1948 sulle rovine del palazzo De Thomasis, non fu un semplice edificio ma il segno concreto della rinascita: la vita che riprendeva, i bambini che tornavano a riempire le strade, il futuro che si affacciava sulle macerie.

inaugurazione asilo 09/03/1948 – costruito sulle rovine del palazzo de thomasis

Protagonisti di questa iniziativa furono i “quaccheri americani”, un gruppo di una ventina di giovani volontari giunti dall’altra parte dell’oceano per aiutare la popolazione. Lavorarono fianco a fianco con gli abitanti, ricostruendo con le mani e con la speranza. La loro presenza non portò solo mattoni e travi, ma un messaggio universale: che la pace e la speranza si costruiscono anche in un piccolo borgo di montagna, con mani giovani venute da lontano.


Epilogo

Tra il 1944 e il 1948 Montenerodomo non visse soltanto la ricostruzione materiale, ma anche un dibattito identitario: restare fedeli alle radici o cedere alla tentazione di un futuro più comodo. Vinse la prima strada, con sacrifici e difficoltà, ma anche con una volontà collettiva forte e chiara.

Così il paese rinacque sulle proprie rovine, segnando il passaggio dalla tragedia della guerra alla speranza della rinascita.


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