
Roma, 1889. La città è viva di fermento e contraddizioni.
Le strade odorano dRoma, la scena della gloria
Roma, 1889. La città è viva di fermento e contraddizioni.
Le strade odorano di pioggia e carrozze, i caffè brulicano di voci, e nei salotti

dell’aristocrazia si parla di un giovane abruzzese capace di incantare con la parola come un incantatore d’Oriente.
Il suo nome è Gabriele D’Annunzio, e sta per diventare il simbolo di un’Italia che vuole essere moderna, elegante e sensuale.
Il Piacere – la nascita del mito (1889)
A ventisei anni, D’Annunzio pubblica il suo primo grande romanzo: “Il Piacere”, opera che segna la sua consacrazione e inaugura la stagione del suo successo.
Scritto tra Roma e la campagna laziale, il libro è un inno alla bellezza assoluta e alla vita estetica vissuta come opera d’arte.
Il protagonista, Andrea Sperelli, è il riflesso dell’autore: giovane, aristocratico, colto, incapace di rinunciare al fascino del desiderio e dell’apparenza.
«Bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte.»
Con Il Piacere, D’Annunzio rompe gli schemi del romanzo italiano dell’Ottocento.
Non racconta il popolo né la morale, ma l’anima raffinata e inquieta di chi vive per l’arte e per l’emozione.
I critici si scandalizzano, ma il pubblico lo adora.
La lingua è nuova: musicale, sensuale, moderna.
Da quel momento, la sua firma non è solo quella di un autore, ma di un personaggio pubblico.
Nasce il mito del Vate, il poeta che incarna la seduzione del bello.
Roma, la capitale della seduzione (1890)
Nel 1890, Roma diventa il palcoscenico del suo trionfo.
Ogni sera, nei salotti di Palazzo Altemps o lungo Via Veneto, si parla di lui.
Le donne lo osservano con curiosità, gli intellettuali lo ascoltano in silenzio, affascinati dalla sua voce morbida e profonda.
D’Annunzio capisce che la fama è un’arte e la coltiva con cura: si veste con eleganza, cita in latino, scrive con passione.
La sua vita diventa una rappresentazione teatrale continua, in cui il poeta e l’uomo coincidono.
Roma lo ispira e lo divora.
Nelle sue notti di scrittura, tra profumi d’ambra e luci di candela, nascono nuove opere: “L’Isotteo” e “La Chimera”, raccolte poetiche in cui il sentimento si mescola al rito e l’amore diventa un’esperienza sacra e sensuale.
Sarah Bernhardt – la musa francese (1890–1891)
È in questi anni che D’Annunzio incontra Sarah Bernhardt, la grande attrice francese, già venerata in tutta Europa come “la divina”.
La loro conoscenza è breve ma intensa.
Lei, più grande di lui di quasi vent’anni, è una donna di magnetismo straordinario: voce profonda, occhi di fuoco, gesti teatrali.
D’Annunzio la guarda come si guarda un mito: in lei vede la fusione tra arte e

vita, il principio che da sempre lo ossessiona.
“Ella recita come si prega.”
Sarah gli insegna che l’arte non deve solo emozionare, ma sconvolgere, sedurre, ferire.
Da lei impara il valore della scena, della parola pronunciata, del gesto misurato.
Il teatro comincia a insinuarsi nella sua mente come la forma più alta di espressione — quella che un giorno gli permetterà di fondere poesia, politica e spettacolo in un’unica visione.
Le opere e la nuova sensibilità (1891)
Nel 1891, D’Annunzio pubblica “Giovanni Episcopo”, romanzo breve e sorprendente.
Dopo i fasti e l’estetismo de Il Piacere, il poeta racconta qui la vita modesta e triste di un impiegato delle poste, schiacciato dalla sua fragilità e dalla brutalità del destino.
È un cambio di tono: l’artista si piega sulla vita semplice, scopre il dolore e la pietà.
Ma anche qui la parola resta musicale e luminosa, e la realtà assume i contorni del mito.
Contemporaneamente lavora alle Elegie romane, versi scritti tra il 1887 e il 1891 e pubblicati l’anno successivo.
Roma è la protagonista invisibile: una città sacra e sensuale, dove ogni rovina parla di eternità e ogni amore ha il sapore dell’attimo fuggente.

“O Roma, mia dolcezza e mia ferita.”
Il poeta come personaggio
Alla fine del 1891, Gabriele D’Annunzio non è più un giovane promettente, ma un simbolo vivente.
Nei caffè si recitano i suoi versi, nelle università si discutono le sue frasi, nei teatri si sussurra il suo nome.
Ha capito che la fama non è solo riconoscimento, ma creazione di sé.
Da allora, ogni gesto, ogni parola, ogni incontro contribuiranno a costruire la sua leggenda.
Il ragazzo di Pescara è diventato l’uomo che l’Italia comincia a chiamare “il Vate”.