Capitolo 5 – Gli anni della passione e della gloria (1892–1894)

Il successo e il fascino del mito

Nel periodo tra il 1892 e il 1894, Gabriele D’Annunzio aveva ormai conquistato la piena consapevolezza della sua grandezza. Non era più solo il poeta della bellezza e del piacere, ma un simbolo della cultura italiana, un uomo capace di influenzare la vita pubblica e politica. In questi anni, la sua figura di Vate si consolidò definitivamente, non solo per le sue opere letterarie, ma anche per la sua figura pubblica, sempre più intrisa di simbolismi e provocazioni.

Il successo di Il Piacere (1889) lo aveva consacrato come uno dei protagonisti della letteratura italiana. Tuttavia, la sua arte non si limitava alla poesia: D’Annunzio voleva vivere la sua arte come un’esperienza totale, estendendo la sua influenza anche alla politica e alla vita sociale. Questi anni furono segnati dal desiderio di D’Annunzio di essere un leader culturale, capace di trascinare la nazione verso una nuova visione estetica e politica.


Il Trionfo della Morte (1894)

Nel 1894, D’Annunzio pubblicò Il Trionfo della Morte, un romanzo che esplora i temi della morte, della passione e della colpa. Il protagonista, come D’Annunzio stesso, è intrappolato tra il desiderio di vivere appieno e il tormento della consapevolezza della propria finitezza. Il libro rappresenta il punto culminante di un periodo in cui D’Annunzio esplorava l’estremismo della bellezza e della morte, rivelando il lato più oscuro della sua estetica.

Il romanzo fu accolto con reazioni contrastanti: alcuni lo osannarono come il capolavoro di un genio, mentre altri lo criticarono per il suo tono eccessivamente oscuro e filosofico. Tuttavia, con Il Trionfo della Morte, D’Annunzio si consolidò come una delle figure più influenti della letteratura italiana. La sua scrittura divenne simbolo di una rivoluzione estetica che mirava a distruggere le convenzioni tradizionali e a creare una nuova realtà in cui l’arte fosse il fulcro della vita.


Gli amori e la relazione con Eleonora Duse

Nel 1894, Gabriele incontrò Eleonora Duse, la donna che avrebbe segnato la sua vita e la sua opera. L’incontro avvenne tra gli applausi di un teatro romano. Lui era già il poeta del desiderio e della gloria; lei, la più grande attrice italiana del tempo, una donna di genio e di sensibilità straordinaria.

Si riconobbero subito.
Lui vide in lei l’incarnazione della sua arte; lei trovò in lui la voce poetica dei suoi sentimenti più profondi.
Il loro amore fu un incendio e una creazione: non solo una passione, ma una fusione artistica. D’Annunzio scriveva per lei, lei recitava per lui. Insieme portarono il teatro italiano a un livello di intensità mai raggiunto prima.

Tra il 1892 e il 1894 la loro relazione divenne una leggenda. Viaggiavano insieme, si scrivevano lettere intrise di fuoco e malinconia, si ferivano e si cercavano con la stessa urgenza con cui un poeta cerca la parola perfetta.
Per D’Annunzio, la Duse era “la Donna e la Musa”, ma anche “la madre e il sacrificio”.
Per la Duse, Gabriele era “il dolore e la luce”.

Lui la chiamava “la divina Eleonora”. Lei lo firmava, nelle lettere, come “il mio poeta crudele”.


Il trionfo del teatro

Da questo amore nacquero alcune delle opere più intense di D’Annunzio. Nel 1893 scrisse Gioconda, tragedia in versi che rappresentava la fusione tra arte, eros e distruzione: un dramma di passioni travolgenti, ispirato proprio alla Duse, che ne interpretò il ruolo principale con un successo travolgente.

La Duse portava sul palco le parole di Gabriele come fossero carne viva.
Ogni gesto, ogni respiro, diventava poesia.
Il pubblico era rapito, gli intellettuali divisi, i moralisti scandalizzati. Ma nessuno poteva restare indifferente.
L’amore tra D’Annunzio e la Duse era ormai uno spettacolo nazionale, la sintesi di arte e scandalo, di genio e peccato.

Nel 1894, D’Annunzio pubblicò L’Innocente, un romanzo che, come Il Piacere, sfidava la morale borghese. Vi narrava la storia di un uomo divorato dal rimorso e dalla colpa, un personaggio che rifletteva il lato oscuro dell’autore.
Quel romanzo, come il loro amore, era un duello tra purezza e perdizione.


L’amore come arte e tortura

La relazione con la Duse attraversò tutte le stagioni della passione: dalle lettere infuocate alle gelosie, dai gesti teatrali ai silenzi feroci.
D’Annunzio viveva l’amore come un rito estetico, un atto sacro da sublimare nella parola scritta. Ma dietro il poeta c’era l’uomo: fragile, vanitoso, inquieto.
Eleonora, invece, cercava una dedizione totale, e ne ottenne solo frammenti di eternità.

Nelle loro lettere di quegli anni si leggono parole che sembrano venire da un dramma antico:

“Ti amo non come si ama, ma come si soffre,”
scriveva lei.
“Ti amo perché distruggi in me ciò che è umano,”
rispondeva lui.


Tra Roma e la costa adriatica

Nei momenti di tregua, D’Annunzio tornava in Abruzzo o sulla costa adriatica, dove ritrovava per un istante la pace dei paesaggi che lo avevano formato.
Scriveva al mare come a un vecchio confidente, chiamandolo “la mia patria d’acqua e di vento”.
Ma il richiamo di Roma, della gloria e dell’amore lo trascinava sempre indietro.
L’Abruzzo era la radice, ma Roma era il palcoscenico.
E sul palcoscenico, D’Annunzio era destinato a non smettere mai di recitare.


Chiusura

Tra il 1892 e il 1894, D’Annunzio diventò definitivamente il Vate d’Italia: poeta, amante, provocatore, genio.
Aveva conquistato la scena letteraria, il cuore della Duse, e l’immaginazione di un Paese intero.
Ma sotto la superficie dorata del successo, si agitava già l’inquietudine del destino.

Perché per lui la vita non bastava mai — doveva sempre diventare poesia.