
L’Italia del Vate
A metà degli anni Novanta dell’Ottocento, Gabriele D’Annunzio era ormai il centro del firmamento letterario italiano.
Dopo Il Trionfo della Morte (1894), la sua fama aveva oltrepassato i confini della letteratura per trasformarlo in un fenomeno culturale e mondano.
Ogni suo gesto era osservato, ogni parola discussa, ogni amore commentato.
Roma e Milano si contendevano il poeta.
Gli editori facevano a gara per pubblicarlo, i giornali per averlo tra le loro firme, le donne per conquistarlo.
Ma D’Annunzio non cercava soltanto ammirazione: voleva influenza, voleva potere.
E così, negli anni tra il 1895 e il 1897, cominciò ad affacciarsi anche alla

politica, convinto che la bellezza potesse diventare una forza capace di guidare la nazione.
“L’arte deve governare la vita,” scrisse in un articolo di quegli anni.
“E il poeta deve essere il suo sacerdote.”
Il giornalismo come potere e visione
D’Annunzio si servì della stampa per affermare il proprio pensiero.
Collaborò con La Tribuna, Il Mattino e altre testate influenti, scrivendo articoli di critica, costume e attualità.
Le sue parole erano affilate e magnetiche: dietro l’eleganza dello stile si celava un invito a rinnovare lo spirito italiano.
Difendeva l’idea di una patria unita nella forza e nella cultura, capace di rivendicare il proprio posto tra le grandi potenze europee.

Ma accanto al patriota, restava l’esteta.
Il giornalismo per D’Annunzio era un palcoscenico, non un dovere.
Ogni articolo era costruito come un atto teatrale, ogni parola pesata come in una poesia.
La realtà non gli bastava: anche nella cronaca cercava la musica segreta delle emozioni.
Amori e ossessioni
Nel frattempo, la vita sentimentale del poeta restava un turbine.
La sua relazione con Eleonora Duse, ancora intensa, cominciava a mostrare le prime crepe.
Lei, la donna che lo aveva amato fino al sacrificio, soffriva per le infedeltà e per la sua instancabile sete di libertà.
Lui, incapace di appartenere a una sola persona, vedeva nell’amore un’estensione della propria arte: un fuoco da accendere, non da custodire.
In questi anni, D’Annunzio conobbe anche la contessa Luisa Casati Stampa di Soncino, giovane e affascinante ereditiera milanese.
La loro relazione non durò a lungo, ma la Casati — che in seguito sarebbe diventata icona del decadentismo europeo — incarnò perfettamente l’ideale femminile dannunziano:
bellezza, mistero, eccesso.
D’Annunzio vedeva in lei una creatura fuori dal tempo, una musa capace di trasformare la vita in rappresentazione.
“Ella vive come una fiamma che non teme di consumarsi,” scrisse di lei in una lettera.
Il trionfo del teatro – “La Gioconda” (1896)
Nel 1896, D’Annunzio portò a compimento uno dei suoi drammi più celebri, “La Gioconda”, scritto pensando a Eleonora Duse.
L’opera racconta la storia di una donna divisa tra l’amore e la fedeltà artistica, tra la bellezza e la dannazione.
Nel personaggio di Gioconda, la Duse trovò una parte di se stessa: fragile, sublime, destinata a bruciare.
La prima rappresentazione, interpretata proprio da Eleonora, fu un trionfo.
Il pubblico applaudì, i critici si divisero, e il nome di D’Annunzio tornò al centro della scena culturale italiana.
Il teatro diventò per lui il luogo perfetto dove unire parola, gesto e visione.
Non era più soltanto uno scrittore: era un regista della vita, capace di trasformare ogni emozione in spettacolo.
Fama e inquietudine
Nonostante il successo, D’Annunzio non trovava pace.
Ogni trionfo era seguito dal vuoto, ogni amore dal rimpianto, ogni parola dal silenzio.
L’ammirazione del pubblico non bastava a colmare il suo bisogno di assoluto.
Si circondava di lusso, profumi, cavalli, oggetti esotici, ma dietro quella magnificenza cresceva un senso di fragilità.
Nel 1897, tornò alla narrativa con Le Vergini delle rocce, romanzo che rifletteva il suo sogno politico e spirituale: la nascita di un’aristocrazia nuova, fatta non di sangue ma di spirito, capace di guidare l’Italia verso la grandezza.
Era il preludio del suo futuro ingresso nella vita pubblica e parlamentare.
Conclusione – La leggenda si consolida
Gli anni dal 1895 al 1897 furono un apice di gloria e tormento.
D’Annunzio dominava la scena culturale italiana come poeta, drammaturgo, giornalista e amatore.
Ma dietro la maschera del Vate cominciava a farsi strada un’altra voce: quella dell’uomo che cercava nella politica, e forse nella guerra, la via per rendere eterna la propria arte.
“Io non vivo: rappresento.
E se smettessi di rappresentare, morirei.”