
in Il Vate e la sua terra
Addio alla Capponcina
Nel 1908, Gabriele D’Annunzio chiuse una delle stagioni più intense della sua vita.
La Capponcina, la sua villa sulle colline di Settignano, non era più un rifugio, ma una prigione di debiti e ricordi.
I creditori bussavano alla porta, i giornali parlavano dei suoi eccessi, la gloria sembrava avergli voltato le spalle.
Fu allora che decise di partire.
Non una fuga, ma una rinascita.
Con il suo consueto orgoglio scrisse:
“Vado dove la mia arte sarà libera come il vento.”
Il 5 maggio 1910 lasciò l’Italia per la Francia, dove lo attendeva Parigi, capitale della modernità e dell’eccesso, città fatta di luci, vizi e promesse.
Parigi – il palcoscenico del nuovo D’Annunzio
Appena arrivato, il poeta trovò nella Ville Lumière un mondo che sembrava creato per lui.
La Parigi dei primi del Novecento era un crocevia di artisti, attori, pittori e rivoluzionari: da Debussy a Rodin, da Sarah Bernhardt a Colette.
D’Annunzio si immerse in quel fermento, presentandosi come l’ambasciatore dello stile italiano, elegante e misterioso.
I salotti parigini lo accolsero con curiosità e ammirazione.
Parlava un francese impeccabile, vestiva con raffinatezza, scriveva articoli e dialoghi per riviste culturali.
Ma non era più il dandy romano dei tempi del Piacere: era un uomo in cerca di equilibrio, diviso tra il desiderio di gloria e il bisogno di silenzio.
“Ho bisogno di bellezza come di pane.
Ma la bellezza, qui, ha il sapore dell’assenza.”
Nuove opere, nuova lingua
In Francia, D’Annunzio trovò una seconda patria letteraria.

Collaborò con giornali e case editrici, scrisse in francese e iniziò a progettare nuove tragedie.
Il suo lavoro più importante di questi anni fu La Nave, concepito tra il 1908 e il 1909, simbolo della rinascita nazionale e del destino mediterraneo dell’Italia.
In quest’opera, il mare non è solo scenario, ma anima.
È il simbolo di un popolo che deve partire, rischiare, conquistare.
Il poeta, ormai proiettato verso il futuro, vede nella nave la metafora dell’uomo che sfida la sorte:
“Chi non naviga, non vive.”
L’arte come rifugio
Nonostante l’apparente successo, gli anni francesi non furono sereni.
Dietro le luci dei teatri e le conversazioni brillanti si nascondeva la solitudine dell’esule.
D’Annunzio si sentiva ammirato ma isolato, circondato da un mondo che lo adulava ma non lo comprendeva.
Il suo stile, sontuoso e solenne, contrastava con l’avanguardia parigina che celebrava la velocità e la dissonanza.
Eppure, il poeta non arretrò.
Rispose con l’orgoglio dell’artista che trasforma il dolore in forma:
“Io non seguo il tempo.
Lo precedo.”
Fu un periodo di ricerca e riflessione, durante il quale il Vate rielaborò le proprie convinzioni politiche e spirituali.
Abbandonò il misticismo e la decadenza per cercare un linguaggio più eroico, più virile, capace di parlare al popolo e non solo ai salotti.
L’uomo e la leggenda
Nel 1910, Parigi guardava a lui come a un simbolo di eleganza e di genio mediterraneo.
Viveva in appartamenti arredati con gusto teatrale, frequentava Sarah Bernhardt e i grandi nomi della cultura francese, ma dentro covava un’inquietudine che nessuna fama poteva placare.
Era il preludio di una nuova metamorfosi:
dal poeta dell’amore al profeta dell’azione, dal dandy all’uomo della Storia.
La penna era pronta a farsi spada.
Chiusura

Tra il 1908 e il 1910, D’Annunzio attraversò il confine invisibile che separa il sogno dalla missione.
L’esilio lo rese più consapevole, più lucido, più pericoloso.
A Parigi imparò che la parola poteva diventare gesto, e che la bellezza, se portata nel mondo, poteva trasformarsi in potere.
Era nato un nuovo D’Annunzio —
il poeta-soldato che presto avrebbe volato sopra Vienna e gridato all’Italia di risorgere.
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