Capitolo 9 – Il ritorno alla terra e il mito di Iorio (1904–1907)


in Il Vate e la sua terra


Il silenzio dopo la passione

Dopo la fine dell’amore con Eleonora Duse e il trionfo de La Figlia di Iorio

(1904), Gabriele D’Annunzio attraversò una stagione di trasformazione profonda.
Il poeta dei salotti e della parola preziosa lasciava spazio a un uomo più essenziale, più legato alla terra e alla memoria.
Il dolore personale si trasformò in voce collettiva.
Nella solitudine della Capponcina, tra i profumi della campagna toscana, D’Annunzio scoprì che la vera bellezza non stava più nel lusso, ma nella verità delle cose semplici.

Scrisse:

“Io sono nato dove la terra ha un’anima,
e ogni sasso conosce il dolore del vento.”


Dopo “La Figlia di Iorio” – la voce della terra

Il successo de La Figlia di Iorio lo aveva riportato al cuore della sua gente.


Per la prima volta, D’Annunzio aveva dato voce al mondo contadino, a quella cultura arcaica e sacra che nessuno aveva mai osato mettere in scena con tanta dignità poetica.
Da quel momento, la sua scrittura cambiò tono: diventò più austera, più intima, nutrita di riti, di leggende e di fede.

Negli anni seguenti nacquero La Fiaccola sotto il moggio (1905) e Più che l’amore (1906):
due tragedie che raccontano famiglie segnate da colpa e redenzione, passioni sepolte sotto il peso della religione e del destino.
In quelle opere, la parola si fa pietra, la scena diventa confessione, la vita assume il ritmo di un antico canto popolare.

“Ho ascoltato la voce della mia terra,” annotò,
“ed essa mi ha insegnato a parlare la lingua dei vivi e dei morti.”


La fede e l’inquietudine

In questi anni, la spiritualità di D’Annunzio cambiò volto.
Dopo aver sfidato il sacro con l’estetismo, iniziò a sentirne di nuovo il richiamo.
La solitudine lo costrinse a guardarsi dentro, e Dio tornò nei suoi scritti, non come dogma, ma come eco poetica.
Croci, angeli, apparizioni e simboli religiosi entrarono nelle sue tragedie come presenze misteriose, segni di una salvezza che il poeta non cercava più nei templi, ma nella parola.

“Io credo nella bellezza perché essa è la forma visibile dell’eterno.”


L’Abruzzo interiore

In questo periodo D’Annunzio riscoprì l’Abruzzo come mito personale.
Non lo descriveva più: lo evocava.
La sua terra diventava simbolo di purezza, sacrificio, mistero.
Ogni collina, ogni pastore, ogni vento che scendeva dal Gran Sasso era un frammento della sua anima.

Il suo Abruzzo non era più geografico, ma spirituale:
la patria degli affetti perduti, della lingua primordiale, della verità semplice.

“La mia terra non mi abbandona.
Mi parla attraverso il silenzio degli alberi e il passo lento delle greggi.”


La fama e l’ombra

Mentre la sua arte cresceva, la vita materiale crollava.
Alla Capponcina, i debiti si accumulavano, i creditori bussavano, le voci degli scandali riempivano i giornali.
Il poeta viveva come un re senza regno, in una reggia costruita con le parole e minacciata dai conti.
Scriveva articoli, teneva conferenze, accettava inviti che non desiderava, solo per mantenere il suo splendore.

In una lettera confidò:

“Ho troppa bellezza intorno, e troppa fatica dentro.”

Il mito cresceva, ma l’uomo si consumava.


Il poeta e la solitudine

Tra il 1906 e il 1907, D’Annunzio si chiuse nel suo isolamento creativo.
Non cercava più l’applauso, ma il silenzio.
Si alzava all’alba, scriveva per ore, camminava tra gli ulivi e le colline fiorentine.
Era un uomo ferito, ma lucido.
Nel suo sguardo convivevano la nostalgia e la fierezza di chi sa di aver visto troppo.

Fu in quel tempo che nacque una frase che avrebbe potuto racchiudere la sua intera esistenza:

“Ho vissuto tutto, e tutto mi ha lasciato fame.”


Chiusura

Tra il 1904 e il 1907, Gabriele D’Annunzio si spogliò del superfluo per tornare all’essenza.
Dalla mondanità alla terra, dal lusso alla verità, dal clamore alla solitudine.
Fu un ritorno simbolico alle radici, un viaggio interiore che lo preparò alla stagione più imprevedibile della sua vita: quella dell’esilio e della guerra.

Il figlio di Pescara non aveva ancora detto l’ultima parola.
Ma ormai il poeta e l’uomo erano una sola voce — e quella voce portava l’eco della sua terra.