
«Isonzo, estate 1915 — Il Vate tra i soldati: l’arte si fa arma.»
In Il Vate e la sua terra
L’Italia è entrata in guerra.
E Gabriele D’Annunzio, dopo mesi di parole infuocate nelle piazze,
mantiene la sua promessa: indossare l’uniforme.

Nessun titolo, nessun privilegio:
sceglie la trincea, il fango, il rischio.
Vuole condividere la sorte dei ragazzi che ha spinto a partire,
non osservare la Storia da lontano.
Le sue prime ore al fronte gli insegnano una verità cruda:
la guerra non è pulita né eroica,
non è musica né discorsi.
Ha l’odore acre del sangue,
ha il suono metallico del filo spinato,
ha il volto dei compagni che non torneranno.
«Qui l’uomo torna originario.
La vita pulsa, feroce e vera.»
La guerra diventa la sua maestra severa:
non è l’atto unico della gloria,
ma un’infinita serie di istanti
in cui bisogna resistere.
Il soldato che accende gli altri
Quando appare in trincea, sporco di polvere e sudore,
i giovani soldati lo guardano increduli.
Il poeta delle loro letture
è fra loro.
«Signor poeta, ci dica qualcosa!»
E lui parla.
Una frase, un grido, un’immagine potente:
basta per far avanzare un plotone.
«Beati gli audaci,
perché da loro rinascerà l’Italia.»
Le sue parole diventano armi morali.
Chi lo ascolta non pensa alla paura,
ma alla missione.
Gli Arditi: “i miei figli della fiamma”
D’Annunzio resta affascinato dagli Arditi,
uomini scelti per i compiti più estremi.

Tra loro trova ciò che aveva sempre ammirato:
coraggio assoluto,
disprezzo del pericolo,
sorriso tagliente davanti alla morte.
Non si limita ad ammirarli:
li segue,
li incita, li provoca, li benedice con frasi taglienti come coltelli:
«La guerra non si guarda: si morde!»
Gli Arditi gli riconoscono un’autorità morale:
non parla a vuoto — agisce.
Il prezzo del coraggio: il primo ferimento
Nel settore del Monte San Michele,
D’Annunzio si espone per osservare le linee austriache.
Una scheggia d’artiglieria gli sfiora il volto:
colpisce la guancia e l’orecchio sinistro,
il sangue gli scende sul collo.
È il primo ferimento in combattimento.
I compagni lo tirano a terra,
ma lui si rialza da solo.
«Non è nulla!», dice mordendosi il labbro.
E resta al suo posto fino alla fine del bombardamento.
Quella ferita,
lieve ma eloquente,
gli rivela qualcosa di definitivo:
«La morte che sfiora non ferma,
accende.»
Il poeta che non ubbidisce
Gli alti comandi spesso non lo sopportano.
È insofferente alla disciplina,
odia i calcoli da tavolino.
Se c’è un’azione rischiosa da compiere,
vuole essere il primo.
«Perché dovrei restare in tenda
mentre loro muoiono?»
Lo ammoniscono.
Lui sorride.
E riparte.
La sua sola presenza sposta il morale di interi reparti:
non possono farne a meno.
Dal fango al cielo
Dopo settimane all’Isonzo,
il poeta sente che la terra gli sta stretta.

Vuole il cielo,
vuole guardare la guerra dall’alto,
dominarla con lo sguardo.
Gli aeroplani, ancora insicuri e pericolosi,
diventano per lui la nuova frontiera dell’audacia.
«Voglio sfidare gli dèi.
Voglio dare alla guerra
la forma del volo.»
Nasce così il poeta dell’aria.
Gli aviatori lo accolgono con rispetto misto a stupore:
lui non sa pilotare,
ma apprende in fretta — e soprattutto,
non ha paura.
Presto, il cielo diventerà il suo palcoscenico,
e le imprese più folli avranno il suo nome.
Il mito comincia a volare
Tra trincee e voli di ricognizione,
tra proclami e ferite,
si costruisce una nuova immagine:
⚔️ il Vate combattente ⚔️
che trasforma la parola in azione,
l’azione in leggenda,
la leggenda in destino.
Non più soltanto poeta,
non più soltanto amante della bellezza.
Ma uomo che crede che:
«Chi non osa, non vive.
Chi non arde, non illumina.»
La guerra è appena iniziata.
E lui è pronto a volare più in alto di tutti.
Il Sognatore lento
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