Capitolo 16 – La ferita che scrive: nascita del Notturno

«Scrivo nell’oscurità, per vedere più lontano.»
Gabriele d’Annunzio, 1916

Il cielo dell’Isonzo, nel 1916, non perdona.
Gli aeroplani di tela e legno tremano come foglie in balia del vento.
È un’alba di foschia, il motore vibra, il freddo punge la pelle come un ago.

D’Annunzio sale a bordo.
Non dovrebbe volare: è stanco, irritabile, provato da notti insonni.
Ma l’aria lo chiama come una religione.

«L’uomo che non osa, non vive.»

Il colpo arriva improvviso.
Un guasto, un urto, un’improvvisa manovra del compagno di volo:
la leva di comando lo colpisce in pieno volto.

L’occhio destro esplode in un lampo di dolore.
Il mondo diventa rosso.
Poi nero.

Il poeta aviatore, eroe dei cieli,
cade in un abisso senza cielo.

L’aereo riesce a rientrare.
La vita è salva.
Ma la luce è perduta.


La stanza oscura

Lo portano a Venezia, poi a La Spezia.


Medicazioni, fasciature, lacrime che scendono senza che lui se ne accorga.
Il dolore è così profondo che la mente sembra separarsi dal corpo.

Per settimane deve restare immobile,
disteso, senza aprire gli occhi.

È un supplizio.
È un esilio.
È un ritorno all’utero della notte.

Gli danno fogli lunghi, sottili:
nastri di carta.
Li può toccare senza muovere il capo.

Gli danno una matita.
La può guidare sul nastro anche bendato.

Gli danno silenzio.
E quello diventa voce.

Nasce così
una delle sue opere più intime.

Il Notturno.


Scrivere senza vedere

Scrivere nel buio non è solo difficile:
è un atto di coraggio.

Ogni parola deve essere sentita nella mente
prima che nella punta della matita.

Ogni frase è un salto nel vuoto.

I “nastri” riempiono il comodino,
si arrotolano sotto le dita,
diventano rotoli di dolore e resurrezione.

D’Annunzio, immobile come un ferito antico,
scrive:

«La mia notte è più viva del giorno degli uomini che vedono.»

Non descrive la guerra.
Non descrive l’eroismo.
Descrive il buio.

E nel buio,
vede più chiaramente di quanto abbia mai visto
sotto il sole.


La visita dei fantasmi

Il poeta ferito
non è mai solo.

Il dolore gli porta immagini:


volti, suoni, ricordi, sogni.

Rivede:

  • il mare di Pescara, la sua infanzia
  • i corpi dei compagni caduti
  • gli occhi delle donne che ha amato
  • le città viste dall’alto, come fate di pietra
  • il lampo delle bombe che ha fotografato dal cielo

Ogni ricordo è una stanza del Notturno.
Ogni stanza una confessione.

Il Vate, che ha sempre parlato al mondo
come fosse un palcoscenico,
ora parla soltanto
a se stesso.

E questa sincerità
è più feroce della guerra.


La paura più grande

D’Annunzio non teme la morte.
L’ha sfidata mille volte.

Trema invece all’idea
di non vedere più.

Per un uomo che ha fatto della visione
la sua arma e la sua gloria,
la cecità è un annientamento.

Ma proprio nel momento più oscuro
scopre una verità nuova:

«Il buio mi ha ridato ciò che la luce mi aveva tolto:
la profondità.»

Non essere costretto a guardare il mondo
gli permette di guardarsi dentro.

Il Notturno
non è un’opera di guerra.
È un’opera di resurrezione.


La voce del dolore

Le pagine del Notturno
sono piene di immagini tremolanti,
come riflessi d’acqua di notte.

Sono:

  • confessioni
  • memorie
  • sogni
  • febbre
  • metafisica
  • paure
  • speranze

La guerra appare come una musica lontana,
più simbolo che cronaca.

La sua vera battaglia, ora,
è con se stesso.

Il poeta scrive:

«La notte è un abisso.
Ma io ci navigo con la mia pena come con un remo.»


La convalescenza e la rivelazione

Col passare dei mesi
la vista parzialmente ritorna.
Non sarà mai più la stessa.

Ma il poeta ha trovato un altro modo
di “vedere”.

Il Notturno
è la prova di questa metamorfosi.

È un libro fatto di ombre,
dove i confini sfumano,
dove ogni parola pesa come un respiro.

La guerra gli aveva dato
l’eroismo.
La ferita gli dà
la profondità.


Il testo che non sembra un testo

Quando anni dopo lo pubblicherà (1921),
molti non capiranno.

Non è un romanzo.
Non è una raccolta.
Non è un poema.

È un flusso,
come un fiume nero attraversato dalla luna.

Ma chi ha visto il dolore
riconoscerà la sua musica.

Il Notturno è
il libro che nessun altro scrittore italiano
avrebbe mai potuto scrivere.

Perché solo D’Annunzio
aveva trasformato il buio in materia narrativa.


L’occhio e il simbolo

Il poeta porta per sempre
la cicatrice della ferita del 1916.

La benda all’occhio
diventa emblema:
un marchio di combattente,


un’icona di dolore,
un segno quasi sacerdotale.

La cecità parziale
gli dona un’aura nuova:
quella del veggente,
colui che vede
ciò che gli altri non possono.

La ferita
diventa mito.

E il mito
diventa libro.


La conclusione del viaggio

Quando l’occhio ferito
si calma finalmente,
il poeta riprende a scrivere in piedi,
a camminare,
a sorridere.

Ma qualcosa in lui è cambiato per sempre.

Il cielo non è più lo stesso.
La guerra non è più la stessa.
La vita non è più la stessa.

Lui stesso
non è più lo stesso.

E capisce che
il Notturno
non è un libro nato dalla sofferenza.

È un libro nato dalla rinascita.

«Sono uscito dal buio come un nuotatore
che torna alla riva del mondo.»

Il poeta
che aveva incendiato l’Italia con le parole
ora la illumina
con il silenzio.