
««Piave, 1917 — L’Italia resiste. E il Vate accende la fiamma.»
In Il Vate e la sua terra
L’occhio destro è quasi cieco.
La benda che lo copre non è solo una medicazione,
ma il segno indelebile della guerra,
della sorte che lo ha sfidato in cielo.
Eppure, D’Annunzio non indietreggia.
Il dolore diventa carburante.
Il buio diventa visione.
La ferita non lo limita: lo consacra.
L’Italia è provata fino all’osso.
Le famiglie contano i dispersi,
le madri piangono in silenzio,
la terra del Piave inghiotte speranza e giovinezza.
Caporetto è crollata come una diga in un urlo.
Bisogna fermarsi.
Rialzarsi.
Resistere.
E lui, che ha fatto della parola una spada,
ora mette la sua spada dove brucia il confine.
«Il Piave non è un fiume.
È un destino.»
Il ritorno nel cielo
I medici lo implorano di riposare.
Gli aviatori scuotono la testa:
nessuno potrà mai tenerlo a terra.
D’Annunzio sale di nuovo su un aereo.
La luce ferisce l’occhio sano,
quello ferito pulsa come un cuore di metallo.

Ma lui stringe la mascella
e guarda avanti.
«La guerra non aspetta i guariti.
Chiede i vivi che non hanno paura.»
Sorvola il Piave come un rapace
in cerca di un segno,
di un battito,
di una scintilla ancora accesa nell’Italia ferita.
I voli non sono solo ricognizioni:
sono promesse mantenute alla patria.
Scatta fotografie,
porta ordini urgenti,
traduce i silenzi del fronte
in decisioni.
Il cielo torna a essere patria.
E lui torna a sentirsi vivo.
“Eja! Eja! Alalà!” — Il grido che rialza un popolo
Sulle rive del Piave,
tra fango e filo spinato,
nasce un suono nuovo:
un verso antico

rispolverato dal fondo della storia italica:
“Eja! Eja! Alalà!”
Lo pronuncia la prima volta quasi per gioco,
come un ruggito uscito dal petto.
Ma quel grido prende fuoco.
Si allarga come un incendio di coraggio.
I soldati lo ripetono,
prima sottovoce…
poi gridando fino a far tremare il sangue.
Il motto supera le trincee:
finisce sulle prime pagine dei giornali,
nelle lettere spedite al fronte,
nei discorsi pubblici.
Le madri lo sussurrano ai figli in partenza.
I ragazzi lo usano come saluto.
Il Paese lo adotta come ritorno della forza.
Il Piave non resiste soltanto con il fucile,
ma con la voce.
E un popolo che torna a gridare
è un popolo che torna a credere.
Verso il mare: la pianificazione della Beffa
Ma non basta riaccendere gli animi.
Il Vate vuole ferire il nemico nell’orgoglio,
nella sicurezza presunta dei suoi porti,
nel cuore della sua marina.

Studia le carte.
Osserva la costa istriana.
Disegna un piano assurdo,
pericolosissimo,
geniale:
Entrare nel golfo di Buccari con piccoli MAS,
e colpire il nemico dove si sente intoccabile.
La Marina lo ascolta attonita.
Poi accetta.
Perché la guerra, a volte,
ha bisogno di chi osa l’impossibile.
La notte della Beffa di Buccari
10 febbraio 1918
Silenzio.
Buio totale.
Le onde sono l’unico suono.
Tre motosiluranti scivolano sull’acqua.
D’Annunzio è a prua,
gli occhi fissi sulla notte.
L’acqua gelida schiaffeggia i visi
degli uomini scelti per la missione.
Superano barriere,
reti,
vedette.

Il cuore batte come tamburo di guerra.
Hanno davanti le navi imperiali,
giganti d’acciaio che dormono.
Il momento è ora.
I siluri vengono liberati.
E…
Si inceppano.
Il colpo manca il bersaglio.
Chiunque altro si ritirerebbe
con amarezza e silenzio.
Non lui.
«Non torneremo muti.»
Cerca nella tasca una manciata di bottiglie tricolori.
Dentro, messaggi di scherno:
“Meglio la beffa, che la resa.”
“Italia viva anche sul mare nemico.”
Le lancia sull’acqua
come semi di rivolta.
Poi ordina la fuga.
Veloce, invisibile, vincente.
L’Italia ride e si rialza
Il giorno dopo, i giornali esplodono.
Non si parla del fallimento bellico,
ma della sfida.
Della sfrontatezza.
Della poesia trasformata in guerra.

D’Annunzio è celebrato come un corsaro romantico.
La gente ride,
gli austriaci digrignano i denti,
il Piave mormora: non è ancora finita.
La Beffa diventa leggenda.
L’Italia rialza la schiena,
un po’ più forte,
un po’ più alta.
Il simbolo che nessuno può fermare
Ogni volta che compare al fronte,
qualcosa cambia:
i soldati si fanno il segno della croce,
gli ufficiali sollevano lo sguardo,
il coraggio torna a circolare come sangue nuovo.
Non è più solo il poeta dannunziano,
né il comandante con la medaglia.
È la voce della vittoria,
l’uomo che ha trasformato il sacrificio
in un incendio di gloria.
Perché se lui è ancora lì,
mezzo cieco ma totale nel coraggio,
allora la vittoria non è un sogno:
è un giuramento.
La Beffa di Buccari non è un capitolo da chiudere,
ma una porta che si spalanca.
Perché la patria chiederà altro.
Chiederà di più.
Chiederà l’impossibile.
E il Vate, come sempre,
risponderà con il volo.
Perché per lui l’Italia
non è un confine geografico:
è una scintilla da accendere
fino al cielo.
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