Capitolo 19 – il sogno di Fiume: quando la patria diventa una città

L’entrata di d’Annunzio a Fiume il 12 settembre 1919 ..

«12 settembre 1919 — Il poeta guida i legionari alla conquista del destino negato.»
In Il Vate e la sua terra

La guerra è finita,
ma la pace ha il sapore amaro delle promesse tradite.

Dal balcone, la parola diventa comando e promessa.
Sotto, una folla che non chiede spiegazioni ma destino.
Fiume, 1919: quando una città ascolta un poeta
e per un istante la storia smette di essere trattato
e diventa voce, corpo, scelta.

L’Italia ha vinto
ma si sente sconfitta.
Ha riempito le trincee di eroi
e ora riempie le strade di reduci dimenticati.

Ai tavoli della pace,
a Parigi,
la voce degli italiani arriva fioca,
quasi timida.
E le potenze vincitrici regalano all’Italia
medaglie senza terra.

La più dolorosa
ha un nome che brucia:

Fiume.

Una città italiana nell’anima,
ma consegnata all’oblio nei trattati.


La fiamma della delusione

Nelle caserme, nei bar, nei teatri,
i reduci mormorano:
«Perché abbiamo combattuto?
Per chi siamo morti?»

D’Annunzio osserva l’Italia smarrita
come un capitano guarda la sua nave in tempesta.

La guerra gli ha insegnato a guidare gli uomini,
a incendiare le anime,
a trasformare la paura in movimento.

Ora gli serve un nuovo scopo.
E lo trova in una parola di fuoco:

Fiume.

«L’Italia ha smarrito la sua voce.
La ritroveremo là dove la tradiscono.»


Il raduno dei legionari

Sono soldati senza guerra,
arditi con il cuore ancora in trincea,
anime che sentono il dovere più forte della legge.

Una folla di uomini che non sanno stare fermi.
E quando il poeta chiama,
rispondono.

Il 12 settembre 1919
la colonna parte verso Est:
automobili, camion, pochi mezzi improvvisati,
una bandiera tricolore al vento
e il destino tra i denti.

Sul sedile anteriore della Lancia
siede il Vate,
divisa da aviatore,
petto in avanti,
occhi d’acciaio.


Il tentativo di fermarlo

Il governo italiano è terrorizzato.
La spedizione non ha l’autorizzazione.
È considerata sedizione, rischio diplomatico,
un atto di guerra senza mandato.

Ordini confusi partono da Roma
come frecce senza bersaglio.

Sul ponte del fiume Torre,
un generale prova a fermarlo:

«Tenente colonnello D’Annunzio,
vi intimo di arrestarvi.
Questa impresa è contraria alla legge!»

Il poeta scende dall’auto.
Il silenzio pesa come piombo.

Poi, con voce calma:

«Io non obbedisco a un governo
che non obbedisce all’Italia.»

Gli ufficiali sbarrano gli occhi.
Il generale ammutolisce.

I soldati italiani…
alzano le armi
per salutarlo.

Il varco si apre.
Il sogno continua.


L’arrivo a Fiume

La città appare in lontananza
come una gemma sul mare.

La popolazione ha capito.
Tutti fuori.
Urla.
Canti.
Bandiere.
Lacrime di gioia.

Al passaggio dei legionari
si sente un solo grido:

«Italia! Italia! Italia!»

Il sindaco Antonio Vio si inginocchia davanti al poeta.

D’Annunzio lo rialza con un gesto lento:

«Nessun italiano deve inginocchiarsi
davanti a un altro italiano.»

Il Vate sale sul balcone del Municipio.
La folla è un’onda senza fine.

E lui, che ha guidato eserciti con i versi
e aviatori con l’esempio,
ora guida una città con una promessa:

«O Fiume,
tu non sarai più la terra senza patria,
ma la patria ritrovata!»

L’urlo della piazza scuote le finestre:

«Viva l’Italia! Viva Fiume!»


La rivoluzione del Carnaro

D’Annunzio non ha liberato una città:
ha liberato un’idea.

Nasce la Reggenza Italiana del Carnaro,
una comunità nuova,
un laboratorio di futuro.

Nessun diplomatico,
nessun compromesso,
nessuna paura.

La Carta del Carnaro
– redatta insieme ad Alceste De Ambris –
è una costituzione avanzata,
così moderna da sembrare fantascienza:

• Musica come diritto fondamentale
• Dignità del lavoro come arte
• Libertà degli individui e delle passioni
• Partecipazione, creatività, ardimento

Fiume diventa
la capitale dell’audacia.

Di giorno si costruisce,
di notte si festeggia.

Legionari e cittadini
cantano, amano, creano.

La città diventa
una fiamma che non sa spegnersi.


Il mondo osserva

Le potenze tacciono,
Roma trema
e intanto la leggenda cresce.

Giornalisti dall’estero arrivano in massa:
vogliono vedere quella città
dove comandano i sogni
e la disciplina è una danza.

Alcuni scrivono:

«A Fiume, il futuro è arrivato prima.»

Altri sussurrano:

«È un’utopia pericolosa.»

Tutti
sono costretti a guardare.


Il tempo del rischio

Ma i giorni passano,
i rifornimenti scarseggiano,
l’inverno avanza.

D’Annunzio lo sa:
ogni rivoluzione vive in bilico
tra eternità e rovina.

Il governo italiano cerca una via d’uscita.
Tratta, minaccia, promette.
La diplomazia stringe cerchi invisibili.

Fiume è una stella accesa
in una notte che non la vuole brillare.


Il Vate e la sua città

Ogni sera D’Annunzio torna sul balcone:

«Abbiamo creato ciò che il mondo crede impossibile:
la patria senza paura.»

La folla risponde ad ogni parola
come fosse un comando,
una preghiera,
un giuramento.

A volte, però,
quando la piazza si svuota
e resta soltanto il vento del mare,
il poeta guarda il buio oltre le luci.

Sa che la storia non perdona chi osa troppo.
Sa che il dolore è già in cammino.

Ma non si ferma.
Mai.

«Se il sogno deve morire,
che muoia combattendo.»


La città vive nel miracolo.
Nel rischio.
Nel desiderio di durare.

Perché quando la patria diventa sogno,
non basta più vivere:

bisogna resistere.

E Fiume
resisterà.


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