Capitolo 20 – Il Natale di Sangue: il giorno in cui il sogno fu ferito

Fiume, dicembre 1920. Il Natale di Sangue: quando lo Stato bombarda il sogno e la poesia risponde con il silenzio ferito.

«Dicembre 1920 — La Regia Marina bombarda Fiume. Il poeta non scende a patti.»
In Il Vate e la sua terra

Il vento di dicembre sibila tra le strade di Fiume.
Non è un inverno come gli altri:
è un inverno che ha fame.

La città resiste da più di un anno,
ma i rifornimenti scarseggiano,
la politica internazionale stringe le mura come una morsa invisibile.

D’Annunzio sente che l’ora della prova più oscura si avvicina.
Eppure, quando si affaccia dal balcone del Municipio,
la folla è ancora lì:
bandiere al vento,
cuori accesi,
occhi pieni di fede.

«Noi siamo italiani, e resteremo italiani!»
urla il poeta,
e il popolo risponde come un tuono.

Ma da Roma…
arriva tutt’altro.


Il Trattato di Rapallo: la condanna del sogno

Il governo italiano,
stanco dei giochi di diplomazia
e impaurito da un poeta troppo potente,

Dicembre 1920. Il bombardamento di Fiume segna il Natale di Sangue: l’Italia colpisce Fiume per chiudere un sogno diventato ribellione.


firma con la Jugoslavia un accordo:

il Trattato di Rapallo
(12 novembre 1920)

Fiume non è più italiana,
ma Stato libero, indipendente.
Una soluzione che sembra moderata,
ma che per D’Annunzio
è una pugnalata.

«Una libertà senza patria
è solo un’altra prigione.»

Il Vate rifiuta l’accordo.
Lo straccia.
Lo chiama tradimento.

Il governo di Roma non può tollerare oltre.
Una città ribelle
è intollerabile per qualunque Stato.


L’avviso della Regia Marina

La flotta italiana
getta l’ancora davanti a Fiume.

Cannoni puntati.
Equipaggi ai posti di combattimento.

Fiume, 1920. D’Annunzio circondato dai legionari: volti giovani, divise irregolari, lo sguardo di chi crede che un’idea valga più di un ordine dello Stato.

L’ammiraglio Giovanni Host-Venturi
invia un ultimatum:

— Arrendetevi.
— Lasciate la città.
— Fine dell’impresa.

D’Annunzio risponde con un telegramma
che è una dichiarazione di guerra al suo stesso Paese:

«Io non mi arrendo.
L’Italia vera è con noi.
A voi la vergogna.
A noi la gloria.»

La sorte è segnata.


24 dicembre 1920: il fuoco sull’albero di Natale

È la vigilia.
La città dovrebbe essere in festa.

Invece, il cielo si riempie
del rombo dei cannoni.

La Regia Marina apre il fuoco.
Proiettili squarciano tetti,
campane,
abitazioni.

Il palazzo del Governo,
dove il poeta si trova,
viene colpito più volte.

Nave della Regia Marina (Taranto, 1933). La Marina che nel 1920 intervenne contro Fiume

Il vetro esplode.
Le schegge volano come rondini impazzite.

Una scheggia attraversa la stanza
e colpisce D’Annunzio alla testa,
facendolo crollare a terra.

Il sangue bagna le carte
della Carta del Carnaro.

«Non è nulla…»
mormora, rialzandosi
con un filo di voce.
«È solo un’altra ferita d’Italia.»

Fuori,
la città combatte come una leonessa messa all’angolo.

Il Natale di Sangue
è iniziato.


La scelta impossibile

I legionari sono pronti
a combattere fino all’ultimo uomo.
Molti lo dicono apertamente:

«Moriremo per Fiume!»

Ma il poeta guarda i volti dei suoi ragazzi:
molti hanno appena vent’anni.
Alcuni ne hanno meno.

Ha il cuore in frantumi:
la sua parola li ha portati fin qui,
e la sua parola può salvarli
o condannarli.

La lotta continuerebbe,
ma contro chi?

Contro la loro stessa patria.

«Non posso essere il poeta
della rovina dell’Italia.»

Ed ecco
la più difficile delle sue vittorie:

decidere di non distruggere ciò che ama.


L’addio

Il 28 dicembre 1920,
ferito, febbricitante, esausto,
D’Annunzio firma la resa.

È una resa politica,
non una resa morale.

Il popolo di Fiume piange.
I legionari urlano.
Molti si inginocchiano
come davanti a un re caduto.

Il Vate si affaccia ancora una volta
dal balcone del Municipio.

La voce gli trema,
ma non tradisce la dignità:

«Ho fatto ciò che ho potuto.
Ho fatto ciò che dovevo.
Ora altri continueranno.
Non maledite me,
ma chi ha ucciso il nostro sogno.»

Una giovane donna sotto il balcone
grida singhiozzando:

«E adesso chi siamo?»

Il poeta risponde,
con un sorriso che non ha più luce:

«Siete italiani.
Questo basta.»


La partenza del Vate

27 ore dopo la firma,
all’alba,
una semplice automobile nera
attraversa la città in silenzio.

D’Annunzio non vuole folla,
né cerimonie.
Non vuole altri morti su di lui.

Passa davanti al mare
che per più di un anno ha respirato sogni.
Si ferma un istante.
Guarda l’orizzonte.

«La bellezza non muore,
si sposta altrove.»

Poi riparte.
Lascia Fiume.
Porta con sé
una cicatrice che non guarirà più.


Il giudizio della storia

Il governo lo condanna come ribelle,
come sovversivo,
come folle.

La gente lo saluta come eroe,
come patriota,
come profeta.

Gli studiosi discuteranno per anni:
era un visionario?
un pericoloso incendiario?
un artista che volle diventare re?

La verità è semplice:

A Fiume, D’Annunzio trasformò la politica
in poesia vissuta,
il popolo in mito,
la patria in atto di fede.

Quello che ha creato
può essere amato o temuto,
ma non ignorato.

Perché Fiume
non è un fallimento:

è la prova che i sogni possono prendere un fucile,
e camminare.


Il Natale di Sangue
mette fine a un’impresa.
Non al mito.

Il Vate se ne va,
ferito ma integro,
vinto ma immenso.

E mentre l’auto scompare nella luce dell’alba,
una voce risuona ancora tra le pietre della città:

«Io ho acceso il fuoco.
Voi, non lasciatelo spegnere.»

🔚 Chiusura dell’articolo – Fine della Prima Parte

Fine della Prima Parte – Il sogno armato

Con il Natale di Sangue si chiude un tempo irripetibile.
Non un capitolo della storia, ma una stagione dell’anima italiana.

Fiume non cade soltanto sotto i colpi dei cannoni.
Cade l’illusione che la poesia possa governare senza pagare il prezzo della realtà.
Resta però qualcosa che nessun bombardamento può cancellare:
l’idea che un uomo, anche solo per un anno, abbia osato trasformare le parole in destino.

D’Annunzio lascia Fiume.
Ma Fiume non lascia D’Annunzio.
E non lascerà l’Italia.

Da qui in poi, il Vate non sarà più soltanto un poeta.
Diventerà un simbolo conteso, un’eredità pericolosa, un nome che altri useranno — talvolta tradendolo.

La Prima Parte si ferma qui.
Nel silenzio dopo l’esplosione.
Nel sangue che macchia le carte.
Nel sogno che, ferito, rifiuta di morire.

La storia continua.
Ma non sarà più la stessa.


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