Capitolo 21-Seconda Parte – Dopo il fuoco

Il silenzio dopo il mito

Il mito resta indietro.
L’uomo va avanti, in silenzio.

Quando Gabriele D’Annunzio lascia Fiume,
non lascia soltanto una città.

Lascia un tempo.

Per più di un anno aveva vissuto dentro un’eccezione:
una città sospesa, una politica senza ministeri,
una patria fatta di parole gridate, di riti inventati,
di giovani pronti a morire per un’idea che non aveva ancora nome.

Ora tutto questo è finito.

L’automobile che lo porta via all’alba
non attraversa soltanto le strade di Fiume:
attraversa il confine invisibile tra il mito e la storia.

Il poeta che aveva parlato alle folle
ora viaggia in silenzio.
Nessun balcone.
Nessuna musica.
Nessuna adunata.

Solo il rumore delle ruote sull’asfalto
e il peso di ciò che è stato.

Il Natale di Sangue non ha distrutto solo un’impresa politica.
Ha spezzato un’illusione più profonda:
che la poesia potesse governare senza pagare il prezzo della realtà.

D’Annunzio lo sa.
E lo sente nel corpo, prima ancora che nel pensiero.

La ferita alla testa,
le notti febbrili,
la stanchezza che non è solo fisica
sono il segno che qualcosa si è incrinato per sempre.

Non è un uomo sconfitto.
Ma non è più un uomo invincibile.

Il ritorno in un’Italia cambiata

L’Italia che lo accoglie non è quella che aveva immaginato durante l’impresa di Fiume.
Non è un Paese pronto a seguirlo.
È un Paese stanco.

La guerra è finita da poco,
ma le sue macerie sono ovunque:
nelle fabbriche ferme,
nei reduci dimenticati,
nelle piazze attraversate da rabbia e paura.

Lo Stato vuole ordine.
La politica vuole stabilità.
Le istituzioni non hanno più alcuna tolleranza per i sogni armati.

D’Annunzio rientra come un vincitore sconfitto:
celebrato da alcuni,
temuto da molti,
sorvegliato da tutti.

Per il governo è un problema.
Per l’opinione pubblica è un enigma.
Per i giovani è ancora un faro.

Ma nessuno sa davvero cosa farne.

Il poeta che ha osato sfidare l’Europa
e costringere l’Italia a guardarsi allo specchio
ora è troppo grande per essere ignorato
e troppo pericoloso per essere seguito.

Dal comandante al simbolo

A Fiume, D’Annunzio comandava.

Il mito viene ripetuto.
La voce che l’ha creato non c’è più.


Ora, viene interpretato.

Le sue parole circolano senza di lui.
I suoi gesti vengono imitati.
I suoi riti vengono copiati, semplificati, svuotati.

Saluti, slogan, liturgie politiche:
tutto ciò che a Fiume era stato invenzione poetica
diventa materiale grezzo per altri.

Il Vate osserva questo processo con inquietudine.
Intuisce che il suo linguaggio
sta per essere usato senza la sua voce.

E forse contro il suo spirito.

Per la prima volta comprende che il pericolo non è più lo Stato.
È l’appropriazione.

Il mito, una volta acceso,
non obbedisce più al suo creatore.

Il ritiro come scelta (e come prigionia)

È in questo clima che D’Annunzio sceglie il ritiro.
Non una fuga.
Una strategia.

Si allontana dalla scena pubblica
per non diventare strumento.
Si chiude in un isolamento che non è silenzio,
ma controllo.

Nasce l’idea del Vittoriale:
non solo una casa,
ma un teatro della memoria.
Un luogo dove il poeta possa continuare a parlare
senza scendere in piazza.

Qui D’Annunzio si trasforma lentamente
da uomo d’azione in monumento vivente.
Da voce del presente
a custode di un passato recentissimo
che l’Italia non sa ancora come raccontare.

Ma il ritiro ha un prezzo.

Il silenzio pesa.
L’inattività brucia.
E soprattutto,
guardare altri usare le proprie parole
è una ferita più profonda di quella ricevuta a Fiume.

Il dopoguerra dell’anima

La Seconda Parte comincia qui.

Si ritira dal mondo
per non farsi usare da esso.

Non con un’esplosione,
ma con una quiete inquieta.

Non con una folla,
ma con una stanza chiusa.

Non con un ordine gridato,
ma con una domanda che non trova risposta:

che cosa resta di un poeta
quando il suo sogno è stato sconfitto
dalla realtà che voleva cambiare?

Da questo momento,
la battaglia di D’Annunzio non sarà più contro i confini,
ma contro il tempo.
Contro l’uso che altri faranno delle sue idee.
Contro il rischio di essere ridotto a maschera,
a reliquia,
a precursore addomesticato.

Il fuoco si è spento.
Restano le braci.

E chi sa leggere la storia
sa che spesso
sono le braci a incendiare il futuro.


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