
L’uomo solo
C’è un momento, nella vita di ogni uomo che ha vissuto troppo intensamente,
in cui il silenzio smette di essere una scelta
e diventa una condizione.
Per Gabriele D’Annunzio, quel momento arriva al Vittoriale.
La casa è piena di oggetti,
di simboli,
di ricordi accumulati come difese contro l’oblio.
Eppure, mai come ora, il poeta è solo.
Non la solitudine del combattente,
né quella dell’artista incompreso.
È una solitudine diversa, più sottile:
quella di chi è sopravvissuto al proprio mito.
Il corpo che presenta il conto
Il corpo, che per anni era stato strumento di conquista,
ora chiede tregua.

Gli occhi stanchi.
Il sonno spezzato.
Il dolore che si muove silenzioso,
come un ospite fisso.
Le ferite di guerra,
gli incidenti,
gli eccessi mai davvero rimpianti
tornano sotto forma di fragilità.
D’Annunzio non li nasconde.
Li osserva con la stessa lucidità
con cui aveva guardato il pericolo.
Scrive di malattia,
di stanchezza,
di morte
non come fine,
ma come presenza quotidiana.
Il corpo diventa un territorio da difendere,
non più da esibire.
Amori che si spengono
L’uomo che aveva fatto dell’eros

una forma di dominio
scopre un sentimento nuovo:
la stanchezza dell’amore.
Le donne passano ancora,
ma non restano.
Non c’è più la fame di possesso,
né l’urgenza di sedurre.
C’è una tenerezza crepuscolare,
a volte una malinconia gentile,
a volte una distanza incolmabile.
Gli affetti diventano brevi.
Gli incontri discreti.
Le separazioni silenziose.
Non per mancanza di desiderio,
ma per consapevolezza
del tempo che resta.
Scrivere per non sparire
È in questa solitudine che la scrittura
assume una nuova funzione.
Non più conquista.
Non più profezia.
Ma resistenza.

D’Annunzio scrive per non dissolversi.
Annota pensieri,
frammenti,
memorie.
La pagina diventa un luogo di sopravvivenza.
Non cerca il pubblico.
Non cerca l’applauso.
Scrive come si parla a se stessi
quando non c’è nessun altro.
La parola perde splendore,
ma guadagna verità.
Il Vittoriale di notte
Di giorno il Vittoriale è museo.
Di notte è rifugio.
Le stanze si riempiono di ombre.
I corridoi trattengono passi che non tornano.

Gli oggetti, privati della luce,
diventano presenze mute.
È qui che il poeta affronta la parte più difficile del suo cammino:
l’assenza.
Assenza di battaglie.
Assenza di futuro.
Assenza di folla.
Non è disperazione.
È resa al reale.
Una resa che non umilia,
ma spoglia.
Il tempo che restringe
Gli anni passano.
Il mondo accelera.
Nuove parole invadono le piazze.
Nuove violenze si affacciano all’orizzonte.
Nuovi protagonisti occupano la scena.
D’Annunzio resta fermo.
Non perché sia indifferente,

ma perché ha capito che il suo ruolo è cambiato.
Non è più voce.
È coscienza muta.
Osserva.
Ascolta.
Annota.
E intanto il tempo
gli restringe lo spazio.
Chiusura
Il Capitolo 24 si chiude così:
con un uomo che non combatte più contro il mondo,
ma contro se stesso.
Non per vincere.
Ma per restare.
La solitudine non è una punizione.
È l’ultimo lusso
di chi ha già dato tutto.
E nel silenzio del Vittoriale,
tra oggetti che ricordano ciò che è stato,
D’Annunzio impara l’arte più difficile:
vivere senza platea.

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